Pillole di paesaggio/2 – Figura e sfondo

Pillole di paesaggio/2 – Figura e sfondo

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica in cui raccoglieremo brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. «Figura e sfondo» è la coppia su cui ragioniamo in questo articolo. fp]

di Fiammetta Palpati

Nelle botteghe dei pittori di un tempo l’esecuzione dei paesaggi era affidata, per solito, agli allievi più giovani o meno promettenti, mentre l’artista riservava a sé le figure, il primo piano. I paesaggi erano una parte – e la meno decisiva – di un’opera. Se l’artista ne faceva, ne faceva per studio: tele e colori a buon mercato, spesso acquarelli, che teneva per sé. Leonardo fu tra i primi a dedicare ai suoi sfondi una cura capillare, una sorprendente ricchezza di effetti visivi, prospettici e cromatici, frutto di approfonditissime osservazioni sull’occhio, la luce, la percezione. Pensate alla cortina montuosa che si staglia tra le arcate nel dipinto «La Vergine del garofano»: a quanto si fatichi a considerarla un mero sfondo, benché sia ancora ciò che si vede alle spalle della Madonna.

Il paesaggio dunque contiene, accoglie, ospita la figura – la figura umana in primo luogo – il figlio dell’uomo. Il suo scopo è rendere evidente ciò che è in primo piano, ciò che deve essere visto. Ha valore relativo, è il mezzo di contrasto, l’ingresso della luce. Ma il sostantivo «sfondo» viene dal verbo «sfondare», e questo, a sua volta, da «fondo» la cui «s» iniziale dà valore di contrario: sfondo è ciò che non ha fondo, ciò che rompe il fondo, che passa da parte a parte, ciò che è pro-fondo . Ciò che mostra altro.

Avete presente gli esempi di illusioni ottiche che dimostrano il famigerato principio di figura e fondo nella psicologia della Gestalt Si tratta di immagini ambigue, nelle quali è impossibile determinare quale sia lo sfondo e quale la figura, in cui sfondo e figura rappresentano alternativamente due cose molto distanti tra loro e che non possono essere colte simultaneamente. La più famosa di queste illusioni è quella del vaso di Rubin in alternativa al quale è possibile vedere due volti di profilo.

Nella psicologia della percezione lo sfondo è ciò che ci appare lontano e meno definito; ciò che non può essere colto simultaneamente a ciò che leggiamo come la figura (o primo piano), che non scompare mai del tutto e, soprattutto, condiziona la percezione della figura.

Ecco: in un romanzo, un racconto, una storia insomma (che sia disegnata o narrata) il gioco tra figura e sfondo è identico. Il paesaggio può essere considerato ciò che è sullo sfondo, che accoglie, ospita, fa risaltare la scena (o l’intera storia), i corpi, i movimenti, le parole – condizionandoli o determinandoli – oppure può essere l’altra figura, l’altro primo piano. Diventare esso stesso figura, essenza, narrazione.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.


 

Pillole di paesaggio/1 – Io e natura

Pillole di paesaggio/1 – Io e natura

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica in cui raccoglieremo brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. La coppia che vi offriamo in questo articolo è «Io e natura». fp]

di Fiammetta Palpati

«Io» e «natura» sono vocaboli di alta, altissima frequenza; termini che usiamo quotidianamente, certi di non essere frantesi. Con la stessa disinvoltura e senza esitazioni utilizziamo «paesaggio», alternandolo a panorama, di cui ci sembra una versione più raffinata, o più cool, più contemporanea. Non abbiamo torto, il paesaggio è molto di moda, ne parlano fotografi, architetti, giardinieri, amministratori locali, filosofi, ambientalisti; adesso anche noi, che scriviamo e pretendiamo di narrare – narrare, non descrivere – il paesaggio. Ecco, cercheremo di mettere in dubbio questa disinvoltura (a nostro vantaggio, ci auguriamo).

Ciascuno di noi ha almeno un amico appassionato di fotografia, che pubblica nel suo Facebook o nel suo Instagram bellissime immagini: grandi vedute, ampie porzioni di spazi aperti, presi da lontano e dall’alto; con sotto delle didascalie del tipo «Panorama di Porto Recanati dal Monte Conero», o viceversa: «Il Monte Conero da Porto Recati». E sicuramente guardare queste fotografie ci dà piacere. Commentiamo: che bel paesaggio. Ma, ecco: «panorama» e «paesaggio» sono termini – come dicevamo – contigui ma non interscambiabili. E per capire la differenza possiamo ricorrere alla nostra coppia di termini: «io» e «natura». Affinché una veduta sia un «paesaggio» c’è bisogno che chi guarda – poiché anche il semplice atto di osservare è costitutivo – sia consapevole di avere di fronte a sé (e di riprodurre, magari attraverso lo scatto fotografico) non uno spazio dato, oggettivo, inerte, da descrivere; ma un’esperienza complessa, un’esperienza di incontro con un mondo (o un pezzo di mondo) che egli riconosce come qualcosa a cui si sente prossimo ma, allo stesso tempo, separato; a cui si sente simile, ma estraneo. È a partire da questo senso di separatezza che viene alimentato il desiderio di cogliere, avvicinare, capire, interpretare. Un paesaggio è sempre una interpretazione e, in quanto tale, sempre una creazione. Chiameremo «io» colui che desidera, e chiameremo «natura» il mondo che «io» desidera cogliere attraverso di sé, indipendentemente dal fatto che questo mondo sia rappresentato da un vulcano in eruzione (uno dei fenomeni meno addomesticabili dalla civiltà) o da un camion fermo in strada, di traverso, tra i corpi di fabbrica e le ombre delle ciminiere che Mario Sironi dipingeva e intitolava «paesaggi urbani» (quanto di meno naturale poteva avere in mente il pubblico nei primi decenni del secolo scorso). 

Se «io» e «natura» sono la possibilità di una creazione, allora il paesaggio che ne nasce deve avere a che fare con l’arte – arte come tecnica, come prassi, prima che come valore estetico; deve essere un artefatto:  una creazione dell’autore, che «mette tra virgolette» (come dice il grande fotografo Guido Guidi) un qualcosa di visibile, e così lo trasfigura: il giardinetto dei cani sotto casa, la sala d’attesa della stazione di Livorno, una nube di fumo che si alza in mezzo ai campi, il traffico nella tangenziale di Milano, l’anonima città ancora immersa nel sonno.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.


Selvatico urbano

Selvatico urbano

di Sandro Lecca

Sandro Lecca è fotografo, videomaker amatoriale, e da lungo tempo cultore del racconto dei luoghi. Attualmente sta frequentando il nostro laboratorio “Paesaggi sonori”, attratto, crediamo, dalle possibilità di ampliare i suoi consueti mezzi espressivi con la scrittura. Il breve documentario che qui presentiamo – e per il quale lo ringraziamo – fa parte di un progetto di racconto della flora attraverso l’esplorazione di uno dei tanti spazi urbani che la Convenzione Europea del Paesaggio implicitamente definisce i “paesaggi della quotidianità”, per distinguerli dai quelli “eccezionali” (sia in senso positivo – cioè i paesaggi di particolare bellezza, o valore, o unicità – che negativo: i paesaggi del degrado). La Nuoro di Lecca, almeno nella flora spontanea, non è tanto diversa da Roma, o da Campobasso o da una delle tante città – o paesi, o borghi, o periferie, o villaggi vacanze, o condomini, padiglioni fieristici, stazioni ferroviarie – in cui la maggior parte dei lettori riconosceranno di vivere, o di lavorare, o di attraversare. Uno spazio usato, consumato, ri-usato, non più vergine, un po’ deteriorato, un po’ lasciato andare a sé stesso, un po’ ripreso per il bavero, e che pertanto è difficile far coincidere con un luogo preciso, cioè uno spazio caratterizzato da un nome, una funzione, una identità, dei confini. Sono proprio i confini a sfrangiarsi per primi: urbano e rurale si sovrappongono, si mescolano; spontaneo e artificiale si elidono a vicenda. Quanto più aneliamo a rintracciare quella selvaticità che collima con la nostra idea di “primario”, di incontaminato, tanto più ci accorgiamo che il selvatico ha assunto nuove forme e che l’ambiente in cui viviamo ci si offre come quello che Gilles Clément ha battezzato “terzo paesaggio”. Solo una cecità dei sensi avverte questo paesaggio come spento, morto, perduto. Sandro Lecca ci accompagna nella sua Nuoro a sentire quanta vita c’è lungo i muri scrostati, l’asfalto spaccato. Buona visione. Fiammetta Palpati.

Il prossimo laboratorio di “Raccontare il paesaggio” si svolgerà in autunno, le iscrizioni sono aperte, il bando completo è qui.

La piuma del paradiso

La piuma del paradiso

di Adriana Ferrarini

[Prosegue la pubblicazione dei Luoghi della distanza, i racconti nati nel laboratorio omonimo che si è svolto sotto la guida di chi scrive, nell’autunno 2020. Il lavoro si è incentrato sull’esplorazione dell’identità dei luoghi e sulla formulazione di una sorta di nuova categoria per quelle porzioni di spazio non più riconoscibili nel nome, nella forma, nella funzione: i luoghi inesistenti. Trasformato, traslocato, seppellito, dimenticato, musealizzato, quel luogo non è più; è morto, o è in un limbo. In questo racconto Adriana Ferrarini, narratrice del paesaggio, dà voce a una immaginaria ricoverata dell’Ospizio Marino – l’edificio che sorse sul Lido di Venezia a metà del XIX secolo e destinato alla terapia climatica dei bambini affetti da scrofola. A colpire non è tanto il destino – altalenante – del complesso architettonico, che ha conosciuto momenti di grande espansione (nel 1933 venne spostato e notevolmente ingrandito) e altrettanti di declino fino all’attuale stato di abbandono – un destino simile a quello di edifici analoghi, quanto la singolarità della sua posizione. Agli inizi del XX secolo, infatti, l’Ospizio Marino fu affiancato, a destra e a sinistra, da due nuove costruzioni che sovrastarono in tutto e per tutto la colonia climatica.

In copertina una fotografia proveniente dagli archivi della Croce Rossa Americana, ritrae un dormitorio per bambini allestito durante la guerra 1915-18, dalla Croce Rossa americana, nel pianoterra di un hotel del Lido, con i letti rimossi probabilmente dall’Ospizio Marino, in quegli anni non utilizzato. La spiaggia del Lido e l’adriatico si intravedono appena oltre le finestre sul retro”.

Le immagini all’interno del testo, invece, raccontano una storia diversa, ma a quello affine. Si tratta dei pregiati tessuti e tappezzerie veneziane Fortuny, in auge nei primi anni del Novecento. Buona lettura. Fiammetta Palpati]

Ai nostri devoti e insigni Benefattori
e gentili Autorità di Governo 
che hanno fatto di questa trista barena
buona solo per le zanzare 
un Paradiso 
Rivolgiamo la nostra gratitudine e un’umile Preghiera
  

Una mattina tutta azzurra ci ha mostrato le montagne dietro al campanile di San Marco e tutti gli altri campanili, un po’ storti un po’ dritti, così tanti che noi non ci si poteva credere, e forse era solo un sogno perché quando il sole è alto nel cielo, qui tutto si scioglie, diventa di vetro, e non si sa più cosa è vero e cosa no.

«Ecco le vostre montagne, voi venite da lì, e anche questa sabbia viene da quelle adamantine alture, il ghiaccio e la pioggia le grattugiano fini, una polvere che il Piave porta giù fino al mare. Quest’isola non era che una striscia di polvere, una duna buona solo per farci orti, e a noi giudei, come ci chiamano, per stracciarci le vesti e recitare il Kaddish in onore dei nostri morti. Guardate ora il miracolo, quei magnifici palazzi, re e regine vengono qui per godere di questo mare, come voi, poveri montanaretti impiagati.»

Così ha detto il dottore. E con il braccio teso, dalle montagne si è girato giù verso la spiaggia, indicando i due hotel luccicanti. Ma il nostro Ospizio marino, che sta nel mezzo, neanche in punta di piedi si vedeva. E per fortuna. I bambini guardavano con la bocca pendula, zotici scrofolosi che non sanno neanche di stare al mondo, in un posto così squisito. Sia resa grazia all’infinita bontà dei cuori caritatevoli dei nostri benefattori e qui appunto inizia il discorso. E l’umile preghiera.

Ma dirò prima che noi non ci ha portato giù il Piave, come questa sabbia fine, bionda e calda tale e quale il pane appena uscito dal forno della Mistica, noi ci ha portato giù il treno e nessuno di noi aveva mai visto un treno e si aveva paura, con tutto quel rumore di ferro e il fumo e come correvano via veloci dal finestrino: le case, i monti, i paesi, non facevi in tempo a vederli che già se n’erano andati.

«Andrete a fare i bagni di mare, brutti musi deformi, e guardate di comportarvi pulito, perché laggiù in pianura ghe sé tanti siori e mangiano la carne dei bambini cattivi, senza parlare dell’uomo nero. E te, Antonietta sta’ attenta, che sei la più grande di tutti e hai più giudizio.»

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Il paese dei padri

Il paese dei padri

di Carla Isernia

[“Luoghi dalla distanza” è la rubrica nella quale pubblichiamo i lavori nati nell’omonimo laboratorio di scrittura creativa svoltosi nell’autunno del 2020. I testi sono una mappa sentimentale di luoghi inesistenti (intesi quali porzioni di spazio non più identificabili come tali nel nome e nella funzione, iniziando dagli spazi trasparenti dell’insignificanza per finire sul versante opposto di quelli preservati in una forma cristallizzata, museale, transitando per la degradazione degli habitat e le sorprendenti rinascenze del terzo paesaggio). Nel testo, Carla Isernia, ordinario di chimica presso l’Università degli studi della Campania e narratrice del paesaggio della prima ora, racconta di una casa di vacanze a Santa Maria del Cedro – un nome nuovo che sembra antico per una località dalla identità complessa, e incerta, tra vocazione agricola e urbanizzazione sregolata. Il non finito calabro lo chiama Carla Isernia che ricostruisce i ricordi d’infanzia, la difficoltà di accettare i cambiamenti e l’incontro con nuovi attori sociali (fuori luogo tanto quanto potevano esserlo gli occupanti degli anni Ottanta, con le loro seconde case al mare). Nel corso di questa ricostruzione inciampa in una continuità dell’esperienza del luogo che sembra mettere d’accordo a livello profondo, e ricucire in modo critico, consapevole, le diverse anime e le tante lacerazioni dell’Italia da cinquanta anni a questa parte, di Santa Maria del Cedro, e di sé. fiammetta palpati]

A Tommaso

Calabria, la parte più a nord, più vicina alla Basilicata e alla Campania.

Santa Maria del Cedro. Per via dei cedri, che i rabbini vengono a comprare per la festa di Sukkoth, la festa delle capanne. Prima, il paese, si chiamava Cipollina, prima dei villeggianti. Non lo sapevo, me lo hanno raccontato quest’anno, papà non credo lo abbia mai saputo. Il paese è in alto, la Marina su un lato e l’altro della statale 19: una distesa di residence a buon mercato, costruiti negli anni Ottanta e comprati sulla carta. Per il mare. Un blu spettacolare, la spiaggia amplissima e lunga, sabbia a grana grossa e sassi, a riva e in acqua – diventa subito profonda, e i pescetti da riva a stento arrivano a mordicchiare le caviglie.

All’una vanno via quasi tutti, pranzano a casa, riposano, scendono di nuovo verso le cinque. Anche gli ambulanti si stendono sotto i pini, al fresco, prima di riprendere le camminate sulla sabbia. Sulla spiaggia quattro, forse cinque ombrelloni a riva, non allineati, una coppia di inglesi, o forse olandesi – nordici – silenziosi, una donna grassa in bikini multicolore, una ragazza su un materassino giallo, un uomo con la barba che prende il sole sul bagnasciuga.

I cinesi arrivano intorno alle due e mezzo. Due adolescenti accompagnati dal padre o dalla madre, qualche volta da entrambi; restano a stento un’ora, che passano interamente in acqua. La donna, quando c’è, fa il bagno con un telo bianco e blu sulla testa: il gancio dell’ancora sulla nuca, le punte all’insù sulle spalle. Si guarda intorno e dispensa un sorriso; nel negozio non è così; nel negozio ha un’espressione arcigna, e brutte ciabatte ai piedi. Dopo il bagno si asciugano, risalgono la spiaggia: la donna avanti, il busto proteso per una rapida salita, i due ragazzi dietro spensierati. Passano vicini al mio ombrellone.

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Dissolvenza al bianco (o della Val di Luce)

Dissolvenza al bianco (o della Val di Luce)

di Cecilia Lolli

[Cominciamo oggi, con questo racconto di Cecilia Lolli, la pubblicazione dei testi nati nel corso della terza edizione del nostro laboratorio di sperimentazione di scritture di luoghi e paesaggi, iniziata a settembre 2020 e in via di conclusione. In “Raccontare il paesaggio, 3 – Luoghi dalla distanza” ci siamo concentrati intorno ai luoghi inesistenti. Con questa espressione, soprattutto con questa attribuzione, abbiamo cercato di forzare semanticamente un concetto indiscusso cominciando con il chiederci se l’identità del luogo, del suolo, della porzione di spazio, sia davvero qualcosa di individuabile (e conservabile) nel nome e nella funzione, al di fuori di una dimensione temporale circoscritta. Insomma, se i luoghi muoiono. Se i luoghi muoiono cosa ne è dello spazio che lasciano? Un vuoto? Un cumulo? Un monumento funebre? Una discendenza? In questo racconto Cecilia Lolli racconta non solo della val di Luce – stazione sciistica appenninica nata sulla scorta di un progetto grandioso che non ha retto ai rovesciamenti politici né ai cambiamenti climatici – ma anche di un luogo, di un rifugio, di una salvezza, che nasce per non durare, per non lasciare traccia. Un luogo tanto concreto quanto immaginario come lo sono le capanne che fanno i bambini, con le sedie e le coperte. Buona lettura. Fiammetta Palpati]

Che la val di Luce si trovasse entro i confini dell’Emilia, solo con un lembo fuori, in Toscana, a Matilde fu chiaro quando Francesco invece di svoltare per l’autostrada tagliò l’ultima rotonda di Sassuolo scivolando verso Fiorano Modenese.

Ad eccezione di annate da record, la val di Luce sopravvive oggi grazie all’innevamento artificiale; in estate e in autunno gli escursionisti più esperti e con le ginocchia buone possono abbandonare i sentieri e scendere per i pendii ripidi delle piste nude. Nelle notti invernali, fuori dalle finestre, la luce della luna aderisce alla neve sparata dai cannoni. Nel tratto terminale di via val di Luce sono stati aperti diversi parcheggi a servizio delle piste, così che solo raramente si è costretti a fermare l’automobile a lato della carreggiata, lasciandola ai pedoni per camminare sulla neve sporca, goffi e scomodi negli scarponi rigidi e con gli sci in spalla. La circolarità della piazza pedonale, nel vapore chiaro che sale dai campi la sera, finisce inghiottita dalle cantine.

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L’ascolto del paesaggio – un’introduzione

L’ascolto del paesaggio – un’introduzione

di Manuel Cecchinato

[A maggio inizierà il nuovo laboratorio dedicato alla dimensione sonora del paesaggio e alle sue potenzialità narrative. Il laboratorio è stato progettato e sarà condotto da Fiammetta Palpati, e da Manuel Cecchinato che in questo articolo ci introduce nel tema. f.p.]

Se pensiamo al fatto che viviamo da sempre dentro un luogo, dentro quello che abbiamo immaginato come paesaggio, come paese delle nostre vedute, come ambiente della nostra vita, non possiamo evitare di pensare che questo ambiente abbia una sua vita. Si tratta di una vita acustico-spaziale.

Vogliamo definirlo come “paesaggio sonoro”. Ma cosa è un paesaggio sonoro? Da una parte possiamo dire che corrisponde al concetto elaborato da Raymond Murray Schafer, compositore e musicologo canadese, negli anni ’70: si tratta di quello che chiamiamo “soundscape”, coniato ad hoc come calco di landscape, appunto “paesaggio sonoro”. Dall’altra parte possiamo dire con Henri-Frédéric Amiel che «un paesaggio qualsiasi è uno stato dell’anima, e chi legge nell’uno e nell’altra è meravigliato di trovare la similitudine di ogni particolare» (Diario intimo, 31.10.1852).

Ecco che una visione resta impigliata dentro un ascolto, o viceversa. Leggiamo in proposito cosa scrive M. Schafer:

L’ambiente che mi circonda mentre sto scrivendo è un paesaggio sonoro. Attraverso la finestra aperta posso sentire lo stormire delle foglie dei pioppi al vento. E giugno, le uova si sono schiuse, e l’aria è piena del canto degli uccellini. All’interno, il frigorifero si avvia di colpo con il suo mugolare stridulo. Io respiro profondamente, poi continuo a fumare la pipa, che alle mie boccate scoppietta sommessamente. La penna scorre agilmente sul foglio bianco, scricchiolando a tratti, e facendo click! quando aggiungo un punto a una i o al termine di una frase. Questo è il paesaggio sonoro di un placido pomeriggio nella mia casa di campagna. Provate a confrontarlo con il vostro paesaggio sonoro mentre state leggendo questi appunti. I paesaggi sonori del mondo sono incredibilmente vari, in diversi luoghi e in diverse culture, e cambiano con il passare dei giorni e il mutare delle stagioni.

Questa descrizione evoca delle sonorità e lo fa come scrittura. Ma come è che la scrittura evoca un paesaggio? E questo paesaggio può ri-suonare (una seconda volta) nella pagina scritta?

L’orizzonte visivo del mondo si sposta con noi: dipende dal nostro sguardo.

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Un Pa(v)ese ci vuole?

Un Pa(v)ese ci vuole?

di Daniela Campagna

[In questo racconto almeno tre luoghi, e diverse immagini: viste e distorte, completate o del tutto ricostruite nella memoria, inchiodate alla documentazione dalle cartoline, dalle fotografie, dai racconti, dagli album di famiglia, attraversate dalle parole di un testo di Pavese che suonano lapidarie come un epitaffio. L’autrice, Daniela Campagna, allieva e parte del laboratorio di Raccontare il paesaggio dalla sua prima edizione, ci apre una finestra sulla sua geografia intima e sul viaggio che, partito da uno specchio in cui riflettersi, transita nelle radici fluttuanti del mare delle Egadi, e approda oggi, qui, in una foresta delle Dolomiti Lucane, in un matrimonio tra alberi sradicati. f.p.]

Le cartoline sono rettangolari, tradizionale formato 15 x 10, per la maggior parte composte di tre o quattro riquadri. Le ho trovate per caso, in questa domenica di novembre, nella libreria di mio padre. Il Santo ricorre spesso, occhi profondi dentro zigomi sporgenti, naso diritto, labbra socchiuse, una barba castano caldo. Il suo viso è sospeso, reso fragile dalla mitra argentata e dai pesanti paramenti. Lo sguardo come incredulo, appeso a una qualche rivelazione. La mano destra che benedice, un grosso volume e il pastorale nella sinistra, un cuore con la fiamma. Mi colpisce il suo viso scavato, imprigionato negli abiti barocchi, pesanti, il suo corpo che non vedo  ma che immagino portare con fatica il peso di quelle vesti da santo: mi domando se gli fluttueranno sulle ginocchia, se sotto la tunica bianca spunteranno caviglie incerte o calzature di porpora.

Io non ho mai visto San Cipriano, vescovo e martire, patrono di Oliveto Lucano, in Basilicata. E sono stata a Oliveto Lucano una sola volta, più o meno dieci anni fa.

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Il seme di luce gettato dai maestri; ovvero, di come sia cambiato il mio sguardo sul paesaggio e di come sia cambiata io

Il seme di luce gettato dai maestri; ovvero, di come sia cambiato il mio sguardo sul paesaggio e di come sia cambiata io

di Francesca Zammaretti

[Wermulleriano il titolo che Francesca Zammaretti – allieva e parte del laboratorio Raccontare il paesaggio sin dalla sua prima edizione – ci propone per una passeggiata, in compagnia dei suoi cani Labrador, tra le parole e le visioni di quegli autori e di quegli insegnanti che chiama, affettuosamente, maestri. Insieme a costoro ha cominciato a ricomporre il proprio contrastato rapporto con il paese nel quale vive, affetto da una bellezza immobile e non negoziabile, attraverso la quale, sembra dire Zammaretti, è complicato vedere la quotidianità. Ma la sua testimonianza in forma di vagabondaggio fisico e letterario è anche il racconto di un processo tuttora in essere attraverso cui ha cominciato a riconoscere sé stessa come parte di quel paesaggio. fp.]

«Il paesaggio punge e trapunge». Piglia e impiglia.

La prima frase è di Andrea Zanzotto. La seconda, mia.

Vivo sulla sponda piemontese del lago Maggiore, al confine con la Svizzera, immersa in un paesaggio che è come una bella donna che non invecchia mai: curatissimo e senza tempo, per questo irreale e fantastico. Qui il paesaggio alimenta il turismo, è fonte di guadagno, dà da vivere. Lo scrivo senza giudicare. Ho sempre avuto rispetto per il lavoro e adesso che tutto si è complicato ancora di più.

In autunno, quando i giardini si inselvatichiscono e i colori diventano caldi, e in inverno, quando la passeggiata diventa deserta, la luce è radente, ma limpida per il freddo, di più amo il lago: il paesaggio si fa qualcosa di altro, entra in risonanza con me. Esco dalla cartolina e cammino.

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Storia di uno sguardo a puntate, 9 / Bianca folla di farina – Santa Maria di Amelia (seconda parte)

Storia di uno sguardo a puntate, 9 / Bianca folla di farina – Santa Maria di Amelia (seconda parte)

di Fiammetta Palpati

[Nella rubrica Storia di uno sguardo, raccolgo delle brevi narrazioni – descrizioni, osservazioni, aneddoti – sui luoghi nei quali ho scelto di vivere – Amelia e i colli amerini – e che ospitarono il primo esperimento residenziale di Raccontare il paesaggio. Nata per rendere familiare ai partecipanti le località che li avrebbero ospitati, la rubrica è rimasta un laboratorio personale sul quale misurarmi sulla narrazione dei luoghi, sullo sguardo che crea il paesaggio, sul complesso rapporto tra parola e immagine. fp].

Leggi la prima parte

C’è una macchia chiara nel mio paesaggio verde. Una chiazza biancastra, che si dilata e si restringe, ma rimane là ostinata, se non indelebile almeno persistente, come la plastica, come la luce del giorno.

Una mattina di agosto inoltrato; presto, quando l’aria è ancora lattiginosa, densa di umidità salubre; una data variabile – ma che sempre cade di domenica – un moto innerva le mie colline, appena sotto la cortina che le riveste: la lecceta, gli olivi, gli incolti, e una schiera e l’altra delle nuove abitazioni di questa prima campagna amerina – così nel gergo immobiliare – di questa ruralità urbanizzata. Sono segnali generici, piccole alterazioni subito riassorbite dall’immobilità domenicale: una finestra che si illumina – giusto il tempo necessario ad alzarsi e vestirsi in fretta; una porta chiusa con cautela – per non svegliare il resto della famiglia; l’avviamento di un motore; un paio di abbaglianti, isolati, lungo la statale che improvvisamente svoltano in basso, verso la chiesetta di Santa Maria, senza nemmeno segnalare perché la strada è deserta. Movimenti di per sé insignificanti, se non convergessero tutti nel medesimo punto, nel medesimo tempo.

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