Tag: Italo Calvino

Pillole di paesaggio/5 – Mimesi e stile

Pillole di paesaggio/5 – Mimesi e stile

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. «Mimesi e stile» è la coppia su cui ragioniamo in questo articolo. fp]

Scriviamo imitando il mondo o stilizzandolo?

Naturalmente entrambe le cose, e contemporaneamente. Una novella, una descrizione – ma anche un disegno, una composizione musicale, una coreografia – è sempre in relazione a quel modo di sperimentare il mondo sensibile che chiamiamo realtà, e di cui fa parte, per esempio, la capacità di suddividere, dare un ordine e correlare gli eventi in modo significativo, cioè di fare una narrazione. Anche quando stravolge il modello essa è sempre un’immagine, una riproduzione somigliante: è mimesi, termine che deriva dal greco il cui primo significato è, appunto, imitare. Ma una narrazione è anche, e sempre, e contemporaneamente, una interpretazione del modello, cioè una stilizzazione, anche quando si dispone alla più umile e impersonale delle descrizioni (per esempio quella del «c’è e ci sono»). Se prendo la penna (e d’altronde «stile» deriva dal latino «stilo», cioè «penna») io stilizzo, rendo mio, interpreto con un’immagine e rendo inconfondibile ciò che produco.

Ma allora perché con rappresentazione realistica (o mimetica) e rappresentazione stilizzata si intendono due cose diverse e quasi opposte? Perché la stilizzazione è ciò che rende più semplice e universale una comunicazione e, contemporaneamente, lo stile è ciò che la rende più distinguibile?

Prendiamo ad esempio la fiaba popolare, di tradizione orale, che è tra le narrazioni più stilizzate, in cui tutto – personaggi, vicende, dialoghi – sono semplificati al massimo, cioè ridotti all’essenziale.

«C’era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò a una locanda a chiedere alloggio. – Qui posto non ce n’è, – disse il padrone, – ma se non hai paura ti mando in un palazzo».

In questo incipit di «Giovannin senza paura» (una delle «Fiabe italiane» raccolte da Italo Calvino) il paesaggio, inteso come ambientazione, è ridotto a tre sostantivi: mondo, locanda e palazzo. E neanche un aggettivo. Poco, pochissimo; ma tutto quello che serve perché la narrazione esista e abbia senso.

Tutta l’arte occidentale è segnata da un susseguirsi di fasi e di ricorsi: stilizzazione, realismo, idealizzazione, espressionismo. Ma alla base di ogni linguaggio raffinato, evoluto, personalissimo, c’è sempre una ricerca di ciò che è essenziale.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Testo con paesaggio / Ottavo esempio: il racconto

Testo con paesaggio / Ottavo esempio: il racconto

di Fiammetta Palpati

[Un paesaggio – o un’idea di paesaggio – accomuna un annuncio immobiliare a una poesia di Marianne Moore. Nel mezzo una scelta semiseria, in alcuni casi provocatoria, di testi molto vari per scopo, struttura e funzione: un manuale di giardinaggio e una delibera comunale, un racconto e una guida turistica, una canzone pop e un saggio filosofico, un libro di storia e un taccuino di viaggio.
Quello che vi propongo in questa rubrica è un tentativo giocoso di stressare un soggetto che nonostante la sua giovane età, o in virtù di essa, dimostra un certo appeal sia per la produzione artistica che per la riflessione teorica. Dieci esempi disparati ma accomunati dal fatto di raccontare direttamente o indirettamente, incidentalmente o con intenzione, uno dei luoghi comuni più affascinanti. Con questo ottavo esempio siamo nella letteratura, e con la forma narrativa per eccellenza: il racconto. fp].

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«… l’ampia spianata di ghiaia biancheggiava alla luce di mezzogiorno, polverosa. Un lungo muretto diroccato segnava un vecchio confine. Antri scavati nel fianco della collina erano nascosti dai detriti. Nessun rumore proveniva dai loro interni, sebbene correnti sotterranee e flussi d’aria si muovessero in continuazione. Alcuni camini trapassavano tutta la roccia della collina e sbucavano più in alto, sul pianoro, in fessure del terreno sottili e disadorne. Da lì entrava l’aria che soffiava giù fino agli antri nascosti, limando dai primordi le pareti di roccia, sgretolandola a poco a poco, portando sabbie finissime in basso, mescolate alle acque sotterranee, ai sali spurgati dalle pareti lentamente.
Al fondo della spianata il terreno cominciava a rialzarsi. Dalla prima catena montuosa erano cadute sbriciolandosi, e cadevano continuamente, pietre che a loro volta producevano frane. Massi di varie dimensioni erano disseminati sul pendio e pareva che la ghiaia della spianata fosse una loro ulteriore, ma in ogni caso non definitiva, riduzione in frammenti (…) Era una pietraia arida su cui il suono anche di un solo ciottolo caduto da un rialzo poteva produrre con le sue vibrazioni altri smottamenti. L’aria che si muoveva compatta levigava e levigava quelle rocce infinitamente asportando veli impalpabili di materia dalla superficie dei minerali e quando un’ultima briciola saltava nel vento tutto l’equilibrio poteva cedere e persino lastre larghe e spesse che erano rimaste migliaia di anni nella stessa posizione cominciavano a pendere verso il basso. In alto la pietraia finiva con nettezza contro la massa montagnosa che saliva in verticale, nuda e ruvida. Da quella massa si era staccata tutta la pietraia pezzo per pezzo. Il fianco della pietraia sembrava sollevarsi dalla pietraia stessa, emergere slanciato in alto, e in parte questo era vero: l’erosione dei venti e delle piogge veniva contemporaneamente riequilibrata dal moto di sollevamento della catena montuosa. Tuttavia era invece la pietraia che enorme digradava lungo quei fianchi a essersene staccata come per scorticatura dall’alto in basso con la forza del peso.
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Esercizi per l’esplorazione del paesaggio, 28 / Ehi, Mr. Palomar!

Esercizi per l’esplorazione del paesaggio, 28 / Ehi, Mr. Palomar!

di Giulio Mozzi

Italo Calvino, Palomar, Einaudi 1983Non so se anche secondo voi il libro più interessante di Italo Calvino sia Palomar; secondo me sì, a fianco della Giornata di uno scrutatore (e il signor Palomar, il cui nome viene da quello di un celebre osservatorio astronomico, che cosa è se non uno “scrutatore”?). Se invece a vostro giudizio è il più noioso, potete fare a meno di leggere questo articolo; oppure, no: questo articolo è scritto proprio per voi. Come tutti sanno, esistono due o tre Italo Calvino: il giovanissimo cantore non tanto della Resistenza quanto della gioventù (tanti anni fa, mio nonno a mio nonno, parlando della ’15-’18 combattuta da entrambi: “Ah, come che staxévimo bén in trincèa!”, “Eh, gavévimo vint’àni!” – “Come stavamo bene in trincea”, “Avevamo vent’anni”); il divertito raccontatore di favole; il narratore quasi neorealista, ma di un neorealismo strano e straniante; il costruttore di macchine concettuali, che è quello che ha riscosso successo mondiale: da Le città invisibili a Se una notte d’inverno, da Il castello dei destini incrociati (libro peraltro bruttissimo) a Palomar (libro molto, molto bello).

Che tutti questi Itali Calvini si somiglino tra loro, almeno un po’, è fuor di dubbio; ma, per capirli può essere più utile notare le differenze che le somiglianze. E così, estremizzando, in questa noterella identificherò Italo Calvino con l’autore di Palomar, e morta là. Cominciamo dunque dall’immagine in copertina, la riproduzione di una celelbre xilografia di Albrecht Dürer, Il disegnatore della donna sdraiata (1525).

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