Esercizi per l’esplorazione del paesaggio, 28 / Ehi, Mr. Palomar!

Esercizi per l’esplorazione del paesaggio, 28 / Ehi, Mr. Palomar!

di Giulio Mozzi

Italo Calvino, Palomar, Einaudi 1983Non so se anche secondo voi il libro più interessante di Italo Calvino sia Palomar; secondo me sì, a fianco della Giornata di uno scrutatore (e il signor Palomar, il cui nome viene da quello di un celebre osservatorio astronomico, che cosa è se non uno “scrutatore”?). Se invece a vostro giudizio è il più noioso, potete fare a meno di leggere questo articolo; oppure, no: questo articolo è scritto proprio per voi. Come tutti sanno, esistono due o tre Italo Calvino: il giovanissimo cantore non tanto della Resistenza quanto della gioventù (tanti anni fa, mio nonno a mio nonno, parlando della ’15-’18 combattuta da entrambi: “Ah, come che staxévimo bén in trincèa!”, “Eh, gavévimo vint’àni!” – “Come stavamo bene in trincea”, “Avevamo vent’anni”); il divertito raccontatore di favole; il narratore quasi neorealista, ma di un neorealismo strano e straniante; il costruttore di macchine concettuali, che è quello che ha riscosso successo mondiale: da Le città invisibili a Se una notte d’inverno, da Il castello dei destini incrociati (libro peraltro bruttissimo) a Palomar (libro molto, molto bello).

Che tutti questi Itali Calvini si somiglino tra loro, almeno un po’, è fuor di dubbio; ma, per capirli può essere più utile notare le differenze che le somiglianze. E così, estremizzando, in questa noterella identificherò Italo Calvino con l’autore di Palomar, e morta là. Cominciamo dunque dall’immagine in copertina, la riproduzione di una celelbre xilografia di Albrecht Dürer, Il disegnatore della donna sdraiata (1525).

Leggiamo qualche riga da un saggio di Daniel Blanga Giubbey intitolato Anatomia della distanza. Racconto fantastico a più dimensioni:

Il disegnatore è concentrato sul proprio foglio, sul quale si appresta a disegnare l’immagine di una donna sdraiata al di là di un prospettografo, strumento composto da una cornice e da una serie di cavi verticali e orizzontali, tesi a disegnare una maglia ortogonale attraverso la quale l’immagine possa essere suddivisa. In primo luogo questo strumento abita e sottolinea a tutti gli effetti lo spazio che si era venuto a creare tra soggetto e oggetto: distanzia il corpo e imprigiona quest’ultimo all’interno di una visione inquadrata, quasi a ridefinire la cornice come prigione o boccascena di un miniaturizzato Theatrum Orbis Terrarum. Se «l’universo cartografico traduce una presa di potere visuale e politica sul mondo» [ C. Buci-Glucksmann, L’œil cartographique de l’art, Galilée, Paris 1996, p. 35], il prospettografo incatena il corpo a distanza dal piano, inaugurando un nuovo possesso visuale su un oggetto già precedentemente conosciuto nell’esperienza.
In secondo luogo esso rappresenta l’elemento astratto che – al pari dei meridiani e paralleli – è stato inserito nel rappresentato affinché l’immagine potesse essere domata dalla ragione. Sul foglio a cui sta lavorando il disegnatore sono riprodotte le stesse linee ortogonali e, presumibilmente, le porzioni di corpo suddivise nei vari quadrati da esse generate. Oltre ad essere posizionato tra corpo e piano, il prospettografo è stato ri-posizionato – con un abile ribaltamento tolemaico – tra l’immagine bidimensionale e lo sguardo. Il disegno del disegnatore vive così in equilibrio all’interno di quella convivenza tra il segno astratto e il corpo concreto della donna che ha caratterizzato la trasposizione e fruizione cartografica di ogni territorio a partire da Dicearco. Assume un senso nuovo il suo stesso termine diafragma: è il segno che attraversava linearmente la terra, ma che al tempo stesso può ora essere considerato un diaframma posto tra lo sguardo e il territorio rappresentato, o l’insieme delle linee prospettiche quali veicolo necessario alla sguardo per ricostruire il corpo nell’immagine.
In terzo luogo, a disegno ultimato – e all’evaporare del reticolo prospettico – quest’ultimo sarà ancora richiamato alla mente dalla tipologia di deformazione che il corpo espone nelle due dimensioni. Lentamente – in base allo scarto esistente tra il corpo conosciuto nell’esperienza e la sua rappresentazione deformata – si è assimilato lo specifico diafragma con cui è costruita l’immagine: esso non ha più bisogno di essere visibile sul foglio ma rimane presente sotto forma di un’implicita legenda che rimane sospesa davanti all’immagine permettendo l’accesso ad essa. Spariscono i meridiani o le linee prospettiche che hanno deformato il corpo, ma rimangono intuibili quali invisibili guide indispensabili alla lettura dell’immagine: l’occhio ri-conosce così il corpo unicamente se ri-conosce – o se si riconosce culturalmente – nelle leggi in base alle quali è stato trasportato sul piano.
Come una mappa potrebbe rimanere un insieme di segni privi di senso e di connessione con il territorio, così il mancato riconoscimento dell’implicita legenda – o dell’insieme di queste regole ottiche e filosofiche – sbarrerebbe allo sguardo il riconoscimento di un corpo giù conosciuto nell’esperienza: se Narciso non possiede e non riconosce la propria immagine è allora prima di tutto perché non riconosce il diafragma dello stagno, ma lo oltrepassa con lo sguardo per focalizzarsi unicamente sull’immagine riflessa, unico fuoco misterioso in cui perdersi.

(Se non l’aveste capito, l’asticella verticale che sta davanti al naso del disegnatore gli serve per garantirgli una sempre identica posizione nel guardare).

Il signor Palomar, protagonista indiscusso del libro Palomar, è un uomo che vuole osservare. In una delle storie che più amo, vuole osservare le stelle: anzi, vuole osservare il cielo stellato e imparare i nomi delle stelle, affinché tutte quelle lucine escano dall’anonimato e acquisiscano, almeno per lui, un nome, una posizione rispetto ad altre, un ruolo nelle costellazioni – in altri termini, un posto in una mappa. E infatti, in una serena notte d’estate, il signor Palomar se la svigna di casa con una mappa (di carta, l’iPad non c’era ancora) del cielo stellato e una lampada. Va in campagna, cerca un bel prato, si siede a gambe incrociate (avrà portato un telo, spero: ma ho letto tanti anni fa, e vado a memoria), e guarda alternatamente in su, verso il cielo, e in giù, verso la mappa.

Ben presto si accorge, il povero signor Palomar, che se vuole vedere le stelle su in cielo deve spegnere la lampada, che comunque posizionata lo abbaglia o almeno sbiadisce (stavo per scrivere, paradossalmente: offusca) la visione; ma se vuole consultare la mappa, deve accendere la lampada. E non è detto – anche perché la mappa e il cielo stellato non sono la stessa cosa, uno è (o così appare) concavo e l’altra è piatta – che la memoria gli basti per ritrovare sempre lassù quello che ha visto quaggiù.

L'osservatorio di Monte Palomar, California
L’osservatorio di Monte Palomar, California

Come sempre quando le sue speranze vengono deluse, il signor Palomar si innervosisce e perde la concentrazione; continua ad accendere e spegnere la lampada, a guardare in giù e in su e in su e in giù, finché – sente un rumorino alle spalle, si volta – non s’accorge che, nel buio e in silenzio, una piccola folla di passeggiatori notturni si è radunata nel prato per osservare con curiosità ‘sto Tizio che se ne sta seduto da un pezzo a lampeggiare, acceso spento, acceso spento, come se mandasse segnali Morse agli extraterrestri.

Fine della storia.

Una mappa è una mappa è una mappa, potremmo dire, ma anche un disegno è un disegno è un disegno, ma anche una fotografia è una fotografia è una fotografia, ma anche – e soprattutto, per quello che ci interessa, un testo è un testo è un testo. Dell’impossibilità di far coincidere le rappresentazioni (mentali, fisico-visive, verbali ec.) con ciò che rappresentano (al punto da far dubitare alcuni dell’esistenza di ciò che viene rappresentato, riservando la parola “realtà” al mondo delle rappresentazioni) si sono occupati nei secoli: filosofi, artisti, narratori, poeti, eccetera eccetera. Notissimo è il frammento di Jorge Luis Borges su una “mappa dell’Impero” così dettagliata da ricoprire, come un mano, l’intero Impero (in Storia universale dell’infamia; ma vi rinvio all’intelligente e divertito commento di Umberto Eco, che spiega come si potrebbe tentare di disegnare tale mappa e perché non sia possibile riuscirci). Evidentemente la scoperta che nulla sappiamo del mondo se non ciò che ne sappiamo – ovvero: ciò che è depositato in vari forme nella nostra coscienza -, mentre il mondo in sé ci è ignoto e inaccessibile, può condurre alla pazzia (il citato Borges, per esempio, secondo me era un folle che simulava un’accuratissimo raziocinio); in alternativa, la si può liquidare con un’alzata di spalle (e non è insensato); ma a noi interessa, piuttosto, fa funzionare quella “macchina concettuale” che è il racconto Palomar e le stelle, e portare a casa qualcosa di utile.

Dice il motto: Quando il saggio indica la luna col dito, lo sciocco guarda il dito. Ebbene, si può scegliere di essere sciocchi e di osservare deliberatamente il dito (pregando lo scienziato di starsene fermo un po’, così possiamo osservarlo bene). La descrizione di un luogo, una qualsiasi,

La casa è piccola, quadrata e bianca. Il tetto è piatto. Sul lato a est, al centro, c’è la porta, chiusa solo da una tenda di tela stampata a fiori rossi e gialli. Sugli altri lati, al centro, c’è una finestra quadrata. Le finestre non hanno vetri, ma al legno è inchiodato uno straccio di cotone giallastro, a maglia larga, come una zanzariera. La casa è sopra un piccolo rialzo, la pianura attorno è piatta e dalle finestre, chi guardasse, potrebbe guardare lontano. Ai piedi del rialzo, di fronte alla porta, c’è una pompa per l’acqua. Alla leva della pompa, che è di legno, è inchiodata con due chiodi una striscia di cuoio per affilare il rasoio. Alla pompa è appoggiata un’assicella che serve per lavare. La casa è composta da una sola stanza. A cento passi dalla casa, verso ovest, c’è una piccola capanna per i bisogni corporali. Dentro la casa la terra battuta fa da pavimento. A due piedi da terra lungo tutte le quattro pareti, con la sola interruzione della porta, c’è una sporgenza che può fare da panca o da mensola. Al centro della stanza c’è un tavolo di legno, con una sola sedia. Sulla mensola ci sono pochi oggetti: una scodella, e dentro la scodella tre posate, un cucchiaio una forchetta un coltello; un secchiello metallico col manico semicircolare, chiuso da un coperchio, che contiene una specie di minestra densa, o un pastone di cibi macinati; un catino, e dentro il catino dei pezzi di sapone e una spazzola: uno specchio rotondo in una cornice di metallo, del diametro di una spanna, e appoggiato sopra lo specchio un rasoio a serramanico; una piccola cesta a base rettangolare, chiusa, che deve contenere della biancheria o degli abiti; una stuoia arrotolata. Sul tavolo c’è una caraffa di metallo smaltato bianco, con il bordo azzurro, e vicino alla caraffa c’è un bicchiere di vetro con il fondo rotondo e spesso, il bordo superiore un po’ svasato. Il vetro del bicchiere non è del tutto trasparente, sembra leggermente rosato. In un angolo del tavolo ci sono un accendino e una scatola di metallo, a base rotonda, che contiene delle sigarette. Sulla sedia è seduto un uomo bianco, vestito con dei pantaloni di cotone color sabbia, e con una camicia-casacca senza colletto, dello stesso colore ma più chiara, quasi bianca. L’uomo è molto magro, e si vede che quei vestiti sono appartenuti a un uomo più muscoloso, anche se di linea sottile, Il viso dell’uomo ha poche rughe, ma profonde. L’uomo non ha un solo capello in testa. Solo la magrezza innaturale fa capire che l’uomo è molto vecchio; il suo viso potrebbe essere anche il viso di un cinquantenne che sia vissuto molto all’aria aperta; anche la sua immobilità fa capire che l’uomo è molto vecchio. L’uomo è seduto rivolto verso la porta e fuma. I suoi occhi non guardano niente in particolare, oppure sembrano guardare con un’attenzione esagerata i piccoli movimenti della tela rossa e gialla che chiude la porta, mossa da minuscoli spostamenti d’aria. L’uomo è seduto dritto sulla sedia, con la mano sinistra in grembo, la mano destra, che regge la sigaretta, è appoggiata al tavolo e porta ogni tanto la sigaretta alla bocca. Quest’uomo è Yanez, il fratello bianco della Tigre, e questa terra che contiene la sua casa è lontanissima da tutti i mari, è in una regione dell’India che nelle carte geografiche degli inglesi appare ancora come una macchia bianca, lattea, attraversata appena dagli esili segni di qualche pista poco sicura e continuamente cancellata dalla vitalità delle foreste o dalle alluvioni dei fiumi,

dovrebbe, più che soddisfarci, più che saziare il nostro sguardo, far nascere in noi qualche domanda: com’è fatto l’occhio che restituisce così ciò che ha visto? Com’è fatto il prospettografo con il quale il narratore ha lavorato? Dove sono i meridiani e i paralleli? Se questa descrizione simula, a quanto pare, lo scorrere di uno sguardo, o forse di una macchina da presa, quali sono esattamente i movimenti di macchina? Dov’era, come si è mosso il cameraman? Qual è – occhio, che questa è la domanda grossa – l’idea di mondo condivisa che permette al narratore di produrre questa descrizione, e a me che leggo di comprenderla?

(Tra parentesi: l’ho presa dal mio primo libro, Questo è il giardino, del 1993; è l’inizio del racconto L’unghia. Riuscite dunque a immaginarmi come un signor Palomar – un signorino, ero ancora quasi giovane – che continuamente sposta gli occhi dalla sua visione al testo che sta scrivendo, e nel momento in cui guarda la visione non può scrivere, e nel momento in cui scrive non può guardare la visione? Il testo non è altro che la traccia di questi movimenti).

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Un pensiero riguardo “Esercizi per l’esplorazione del paesaggio, 28 / Ehi, Mr. Palomar!

  1. …non posso fare a meno di dirlo: mi piacerebbe leggere le risposte a quell’elenco di domande. Ma mi piacerebbe proprio tanto tanto. Le tue risposte. Non le mie, ché fatico a trovare (ed è questo il motivo per cui mi interesserebbe tanto, al di là della parentesi che in parte risponde).

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