di Nunzia Picariello
[«Sublime contemporaneo», il nostro laboratorio monografico sulla scrittura di luogo e paesaggio, si è recentemente concluso (qui ne trovate una sintesi ); il gruppo di lavoro sta ora elaborando i testi che ci auguriamo potranno costituire una iniziale mappa fisico-psichica , in forma narrativa, di luoghi, circostanze esistenziali, forme plastiche, cromatiche, espressive e testuali (in altre parole: di paesaggi) attraverso i quali in questi tempi si cerca, si esprime – si subisce persino – un desiderio di sublime, inteso come «esperienza del limite», secondo la definizione che ne ha data Massimo Fusillo1.
Per Nunzia Picariello, autrice del racconto che pubblichiamo a titolo di anticipazione sulla nostra mappa sul sublime contemporaneo, la partecipazione al laboratorio è stato anche l’occasione per rileggere un proprio testo alla luce di una diversa e illuminante chiave interpretativa. Fiammetta Palpati]
I raggi si riflettono sulla superficie d’argento screziata di porpora, che s’assembla e si smembra con ritmo proprio. Le Koi sono il cuore dello stagno: il loro movimento, una danza di corpi sinuosi, è respiro potente che si propaga concentrico verso il canneto, le ninfee e l’elodea. In modo tale che tutto alita all’unisono. Il laghetto artificiale sfrutta l’acqua del fontanile presente nella proprietà e che, in altri tempi, serviva per la marcita. Con il giusto impianto di depurazione Mario è riuscito a farne il luogo adatto per più di cinquanta carpe. Ne conosce la maggior parte, venera la loro grazia, non smette di stupirsi per i colori vividi delle loro squame: nella loro prigione le carpe diffondono l’infinito.
La sua preferita è una Kohaku con una macchia rotonda sul capo e due screziature rosso profondo sul dorso. La sua pancia è liscia, bianco uovo. Quando porta il cibo alle Koi, queste subito accorrono verso di lui. Protendono il muso verso l’esterno dell’acqua e così facendo, mutano di sostanza: mostrando la faccia corrucciata, gli occhi vacui e impersonali e più sotto, una bocca rotonda incorniciata da baffi, ecco che la loro meraviglia scompare. La Kohaku si avvicina per prima e se ne va per ultima: le labbra polpose si aprono e richiudono in una silenziosa sinfonia per il padrone. Lui sorride e avvicina il viso al pelo dell’acqua. Si baciano.
«A che ora arrivano?» Lei e Mario stanno seduti a terra sul bordo dello stagno.
«Tra poco dovrebbero essere qui» risponde lui. Stanno aspettando la consegna dell’ultimo acquisto: una karashigoi di sessanta centimetri. L’ha molto desiderata.
Sono vicini, le loro spalle si sfiorano. Il vento sbuffa e solleva i capelli lunghi che finiscono per intrecciarsi con i fili di barba sottile. Lei si stringe un po’ tra le braccia; lui si volta a guardarla: ha lo sguardo dritto, il naso piccolo, lo zigomo alto e rosato. Le cinge allora la vita e la stringe a sé. Lei contorce la bocca in una smorfia; un piccolo grido le sfugge lieve, ma si affida alla stretta e lascia ricadere lenta la testa sulla spalla di Mario.
«Ti fa male?»
«Un po’» risponde lei.
«Eccoli.»
Dal fondo del viale, si intravede un furgoncino. Il cancello elettrico si apre e i pneumatici scrocchiano sopra il ghiaino risalendo la strada. Mario li guarda e sente una palpitazione prenderlo: ecco, la cosa. Quella cosa che s’approssima alla felicità, anche se non ne conosce il nome. Ma il sapore sì. Ed è quello che sente adesso sotto la lingua. Lei lo guarda e ne riconosce i tratti: in fondo agli occhi del dominus vede quello che l’ha spinta fino a lì. Quella cosa che la tiene legata a lui. Una sorta di buco magnetico il cui centro continua a fissare senza posa. La schiena appoggia sulla nebulosa bianca, ma i suoi piedi, lo sa, sono già intinti nel nero.
Il camioncino si ferma a pochi metri da loro. Ne scendono due uomini di origine sudamericana, in abiti di lavoro. Fanno un cenno con la mano. Mario si sposta verso di loro, febbrile. Lei rimane. Aspetta. Gli uomini vanno sul retro del furgone e aprono il portellone. Armeggiano tirando fuori una scatola di cartone. Con delicatezza la trasportano verso il laghetto. Mario li precede. Fa poggiare il cartone accanto ad una piccola vasca e fa segno di aprire. Gli addetti aprono l’imballaggio e tirano fuori il contenuto: nel grosso sacchetto di plastica rigonfio d’acqua, ecco la karashigoi.
«Piano» sussurra Mario. «Fate piano.»
La poggiano accanto alla vasca. La carpa si agitata nella sua piccola camera iperbarica. Ha un arancio abbagliante. Mario ne è stordito. Prende il sacchetto e lo mette in vasca. Deve aspettare una mezz’ora per far acclimatare il pesce: non deve subire altri stress di ambientamento. Quando l’acqua nel involucro sarà alla stessa temperatura di quella della vasca potrà liberare la Koi. Solo in seguito, la traferirà nello stagno a far compagnia alle altre.
Lei lo guarda prendersi cura della sua nuova creatura; osserva i gesti precisi, calcolati e l’emozione che sa piegarsi alla volontà dell’accuratezza. Se deve pensare a una parola, per quello stagno, per le Koi, per la cosa, lei pensa a devozione. È tutto è parte del disegno a completamento dell’opera.
«Non è bellissima?».
«Sì. Lo è» risponde lei.
«Ho fatto un ottimo affare.»
Sorride. L’energia lo scuote. Si sente vibrare dentro. Quel movimento arriva fino a lei: è il respiro dello stagno che li avvolge e li meraviglia. Si abbracciano. Le bacia il collo, poi le labbra e le mani accarezzano. L’eccitazione è muschio e pino; è sciabordio che sbatte contro le curve delle cosce. Si stendono. Lei ha nelle narici fili d’erba; nella bocca limo e ferro. La pancia di lei sbatte contro la terra fresca.
“Sei guarita» le dice Mario mentre accompagna con l’indice le cicatrici rosse. Ne ha sette sulla schiena. Sette lunghe strisce vivide e gonfie. Lei ora ha la pelle d’oca e si volta a guardarlo. Si baciano.
Il sole è quasi al tramonto. I colori del cielo, insieme alle Koi danno fuoco allo specchio d’acqua. È giunto il tempo per la carpa di essere liberata nella prigione. Lui si rialza. Prende un retino e si avvicina alla vasca; pesca senza difficoltà la karashigoi e la trasferisce nello stagno. Questa, con uno slancio elegante raggiunge le altre. Le sembra di aver visto un lampo di felicità in quell’occhio tondo, un sorriso appena accennato tra i lunghi baffi. Una condizione di miseria salutata con benevolenza, quasi fosse la miglior sorte capitata. L’istinto di conservazione fa preferire il dolore alla morte. E il dolore, ti rende essere senziente. Il dolore è un tempio.
«Vieni. Andiamo a casa» la invita Mario. Ha la febbre, gli occhi sono lucidi. Brillano acquosi. A lei pare di vederci tutto lo stagno. Comprende che quella giornata deve essere memorabile. Lui l’ha così desiderata. A lei si chiude il respiro; nelle viscere ha mollezza. Sente umido tra le gambe. Accetta. Non ha paura. Le cosce sono nel nero e il nero scolora l’angoscia, anestetizza l’istinto. Il nero è l’amore. Un amore che tutto può attraversare.
Lui le sorride, le tende la mano. Lei la prende. Lo segue. Una volta dentro, vanno dritti alla stanza. Nessuno ha avuto esitazioni. Non parlano. Si annusano. Nell’odore di Mario c’è la cosa. Si sente netto e cresce. Sulla pelle di lei c’è sudore nero.
C’è penombra e puzza di muffa.
«Spogliati.» Non c’è comando. È invito. Lei, accoglie. Lui intanto versa un po’ di liquore: ne beve un po’. Le porge il resto. Rum dolce. Beve, lo sente bruciare ma chiede ancora. Riempie di nuovo il bicchiere. Quando lo prende, lui le sfiora i capelli con la mano. Vede amore. Solo amore nei pozzi neri che sono ora i suoi occhi. Lei ci si immerge.
Lui le lega i polsi e le caviglie. Sente il freddo del muro contro la pelle. Quando riceve la prima frustata, la testa le sbatte contro il cemento. Il corpo è scivolato nel buco. Il nero sale. Prende lo stomaco.
Non c’è più muffa, ma solo dolciastro nell’aria. Conta dieci e dopo, no. Dopo il nero si prende i suoi occhi.
Lui l’ha slegata, l’ha portata di peso nel bagno e poi l’ha lavata. Le ha messo un balsamo. Lei ha lasciato fare, una bambola con un buco nel centro. E fasce sulla schiena. L’ha portata a letto, l’ha baciata. Ha ripulito il bagno con la candeggina. Ha bevuto ancora, poi si è addormentato sazio: si è preso cura delle sue creatura.
Si è svegliato ed è solo. La cerca in casa. Quando la trova, lei giace a pancia in giù; i capelli le galleggiano intorno alla testa a mo’ di corona. Il corpo pallido, già un po’ gonfio, trasportato dal movimento lieve delle acque. Le carpe stanno cibandosi delle sue carni. Lui pensa che è bellissima, lì, nel mezzo del suo universo. Regina delle Koi. Con la schiena rosso vivida e la pancia liscia, bianco uova. Una sostanza che ha trovato l’esatta forma corrispondente.
1 Fusillo M., «Esperienze del limite, Il sublime e la sua ricezione moderna», in Sul sublime, Fondazione Valla/Mondadori, 2021.
