Autore: fiammetta palpati

Aperte le iscrizioni al laboratorio monografico «Il tracciato e la città»

Aperte le iscrizioni al laboratorio monografico «Il tracciato e la città»

Roland Barthes, che accingendosi a ragionare e a scrivere sulla città e sui segni si definì un amatore di entrambi, ha scritto:

La città costituisce un discorso e questo discorso è una vera parola: la città parla ai suoi abitanti, parliamo la nostra città, la città dove ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola. Tuttavia il problema è di far uscire un’espressione come «linguaggio della città» dallo stato puramente metaforico. È molto facile, metaforicamente, parlare del linguaggio della città come si parla del linguaggio del cinema o del linguaggio dei fiori. Il vero salto scientifico sarà attuato quando si potrà parlare di linguaggio della città senza metafora.

Il laboratorio monografico «Il tracciato e la città» si propone come un percorso di scrittura creativa attraverso gli aspetti concreti, metaforici e psichici legati al grande e attualissimo tema della città [fp].

Per conoscere nel dettaglio il calendario e il programma del laboratorio consulta la pagina dedicata

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Lo stagno

Lo stagno

di Nunzia Picariello

[«Sublime contemporaneo», il nostro laboratorio monografico sulla scrittura di luogo e paesaggio, si è recentemente concluso (qui ne trovate una sintesi ); il gruppo di lavoro sta ora elaborando i testi che ci auguriamo potranno costituire una iniziale mappa fisico-psichica , in forma narrativa, di luoghi, circostanze esistenziali, forme plastiche, cromatiche, espressive e testuali (in altre parole: di paesaggi) attraverso i quali in questi tempi si cerca, si esprime – si subisce persino – un desiderio di sublime, inteso come «esperienza del limite», secondo la definizione che ne ha data Massimo Fusillo1.

Per Nunzia Picariello, autrice del racconto che pubblichiamo a titolo di anticipazione sulla nostra mappa sul sublime contemporaneo, la partecipazione al laboratorio è stato anche l’occasione per rileggere un proprio testo alla luce di una diversa e illuminante chiave interpretativa. Fiammetta Palpati]

I raggi si riflettono sulla superficie d’argento screziata di porpora, che s’assembla e si smembra con ritmo proprio. Le Koi sono il cuore dello stagno: il loro movimento, una danza di corpi sinuosi, è respiro potente che si propaga concentrico verso il canneto, le ninfee e l’elodea. In modo tale che tutto alita all’unisono. Il laghetto artificiale sfrutta l’acqua del fontanile presente nella proprietà e che, in altri tempi, serviva per la marcita. Con il giusto impianto di depurazione Mario è riuscito a farne il luogo adatto per più di cinquanta carpe. Ne conosce la maggior parte, venera la loro grazia, non smette di stupirsi per i colori vividi delle loro squame: nella loro prigione le carpe diffondono l’infinito.

La sua preferita è una Kohaku con una macchia rotonda sul capo e due screziature rosso profondo sul dorso. La sua pancia è liscia, bianco uovo. Quando porta il cibo alle Koi, queste subito accorrono verso di lui. Protendono il muso verso l’esterno dell’acqua e così facendo, mutano di sostanza: mostrando la faccia corrucciata, gli occhi vacui e impersonali e più sotto, una bocca rotonda incorniciata da baffi, ecco che la loro meraviglia scompare. La Kohaku si avvicina per prima e se ne va per ultima: le labbra polpose si aprono e richiudono in una silenziosa sinfonia per il padrone. Lui sorride e avvicina il viso al pelo dell’acqua. Si baciano.

«A che ora arrivano?» Lei e Mario stanno seduti a terra sul bordo dello stagno.

«Tra poco dovrebbero essere qui» risponde lui. Stanno aspettando la consegna dell’ultimo acquisto: una karashigoi di sessanta centimetri. L’ha molto desiderata.

Sono vicini, le loro spalle si sfiorano. Il vento sbuffa e solleva i capelli lunghi che finiscono per intrecciarsi con i fili di barba sottile. Lei si stringe un po’ tra le braccia; lui si volta a guardarla: ha lo sguardo dritto, il naso piccolo, lo zigomo alto e rosato. Le cinge allora la vita e la stringe a sé. Lei contorce la bocca in una smorfia; un piccolo grido le sfugge lieve, ma si affida alla stretta e lascia ricadere lenta la testa sulla spalla di Mario.

«Ti fa male?»

«Un po’» risponde lei.

«Eccoli.»

Dal fondo del viale, si intravede un furgoncino. Il cancello elettrico si apre e i pneumatici scrocchiano sopra il ghiaino risalendo la strada. Mario li guarda e sente una palpitazione prenderlo: ecco, la cosa. Quella cosa che s’approssima alla felicità, anche se non ne conosce il nome. Ma il sapore sì. Ed è quello che sente adesso sotto la lingua. Lei lo guarda e ne riconosce i tratti: in fondo agli occhi del dominus vede quello che l’ha spinta fino a lì. Quella cosa che la tiene legata a lui. Una sorta di buco magnetico il cui centro continua a fissare senza posa. La schiena appoggia sulla nebulosa bianca, ma i suoi piedi, lo sa, sono già intinti nel nero.

Il camioncino si ferma a pochi metri da loro. Ne scendono due uomini di origine sudamericana, in abiti di lavoro. Fanno un cenno con la mano. Mario si sposta verso di loro, febbrile. Lei rimane. Aspetta. Gli uomini vanno sul retro del furgone e aprono il portellone. Armeggiano tirando fuori una scatola di cartone. Con delicatezza la trasportano verso il laghetto. Mario li precede. Fa poggiare il cartone accanto ad una piccola vasca e fa segno di aprire. Gli addetti aprono l’imballaggio e tirano fuori il contenuto: nel grosso sacchetto di plastica rigonfio d’acqua, ecco la karashigoi.

«Piano» sussurra Mario. «Fate piano.»

La poggiano accanto alla vasca. La carpa si agitata nella sua piccola camera iperbarica. Ha un arancio abbagliante. Mario ne è stordito. Prende il sacchetto e lo mette in vasca. Deve aspettare una mezz’ora per far acclimatare il pesce: non deve subire altri stress di ambientamento. Quando l’acqua nel involucro sarà alla stessa temperatura di quella della vasca potrà liberare la Koi. Solo in seguito, la traferirà nello stagno a far compagnia alle altre.

Lei lo guarda prendersi cura della sua nuova creatura; osserva i gesti precisi, calcolati e l’emozione che sa piegarsi alla volontà dell’accuratezza.  Se deve pensare a una parola, per quello stagno, per le Koi, per la cosa, lei pensa a devozione. È tutto è parte del disegno a completamento dell’opera.

«Non è bellissima?».

«Sì. Lo è» risponde lei.

«Ho fatto un ottimo affare.»

Sorride. L’energia lo scuote. Si sente vibrare dentro. Quel movimento arriva fino a lei: è il respiro dello stagno che li avvolge e li meraviglia. Si abbracciano. Le bacia il collo, poi le labbra e le mani accarezzano. L’eccitazione è muschio e pino; è sciabordio che sbatte contro le curve delle cosce. Si stendono. Lei ha nelle narici fili d’erba; nella bocca limo e ferro. La pancia di lei sbatte contro la terra fresca.

“Sei guarita» le dice Mario mentre accompagna con l’indice le cicatrici rosse. Ne ha sette sulla schiena. Sette lunghe strisce vivide e gonfie. Lei ora ha la pelle d’oca e si volta a guardarlo. Si baciano.

Il sole è quasi al tramonto. I colori del cielo, insieme alle Koi danno fuoco allo specchio d’acqua. È giunto il tempo per la carpa di essere liberata nella prigione. Lui si rialza. Prende un retino e si avvicina alla vasca; pesca senza difficoltà la karashigoi e la trasferisce nello stagno. Questa, con uno slancio elegante raggiunge le altre. Le sembra di aver visto un lampo di felicità in quell’occhio tondo, un sorriso appena accennato tra i lunghi baffi. Una condizione di miseria salutata con benevolenza, quasi fosse la miglior sorte capitata. L’istinto di conservazione fa preferire il dolore alla morte. E il dolore, ti rende essere senziente. Il dolore è un tempio.

«Vieni. Andiamo a casa» la invita Mario. Ha la febbre, gli occhi sono lucidi. Brillano acquosi. A lei pare di vederci tutto lo stagno. Comprende che quella giornata deve essere memorabile. Lui l’ha così desiderata. A lei si chiude il respiro; nelle viscere ha mollezza. Sente umido tra le gambe. Accetta. Non ha paura. Le cosce sono nel nero e il nero scolora l’angoscia, anestetizza l’istinto. Il nero è l’amore. Un amore che tutto può attraversare.

Lui le sorride, le tende la mano. Lei la prende. Lo segue. Una volta dentro, vanno dritti alla stanza. Nessuno ha avuto esitazioni.  Non parlano. Si annusano. Nell’odore di Mario c’è la cosa. Si sente netto e cresce. Sulla pelle di lei c’è sudore nero.

C’è penombra e puzza di muffa.

«Spogliati.» Non c’è comando. È invito. Lei, accoglie. Lui intanto versa un po’ di liquore: ne beve un po’. Le porge il resto. Rum dolce. Beve, lo sente bruciare ma chiede ancora. Riempie di nuovo il bicchiere. Quando lo prende, lui le sfiora i capelli con la mano. Vede amore. Solo amore nei pozzi neri che sono ora i suoi occhi. Lei ci si immerge.

Lui le lega i polsi e le caviglie. Sente il freddo del muro contro la pelle. Quando riceve la prima frustata, la testa le sbatte contro il cemento. Il corpo è scivolato nel buco. Il nero sale. Prende lo stomaco.

Non c’è più muffa, ma solo dolciastro nell’aria. Conta dieci e dopo, no. Dopo il nero si prende i suoi occhi.

Lui l’ha slegata, l’ha portata di peso nel bagno e poi l’ha lavata. Le ha messo un balsamo. Lei ha lasciato fare, una bambola con un buco nel centro. E fasce sulla schiena. L’ha portata a letto, l’ha baciata. Ha ripulito il bagno con la candeggina. Ha bevuto ancora, poi si è addormentato sazio: si è preso cura delle sue creatura.

Si è svegliato ed è solo. La cerca in casa. Quando la trova, lei giace a pancia in giù; i capelli le galleggiano intorno alla testa a mo’ di corona. Il corpo pallido, già un po’ gonfio, trasportato dal movimento lieve delle acque. Le carpe stanno cibandosi delle sue carni. Lui pensa che è bellissima, lì, nel mezzo del suo universo. Regina delle Koi. Con la schiena rosso vivida e la pancia liscia, bianco uova. Una sostanza che ha trovato l’esatta forma corrispondente.

1 Fusillo M., «Esperienze del limite, Il sublime e la sua ricezione moderna», in Sul sublime, Fondazione Valla/Mondadori, 2021.

Accostamento a Celati

Accostamento a Celati

di Stefania Pietroforte

[Stefania Pietroforte è una studiosa di filosofia italiana del Novecento. È legata al magistero di Gennaro Sasso Ha pubblicato alcuni volumi e numerosi articoli su diverse riviste filosofiche. Ha dato vita, insieme ad altri, alla rivista “Filosofia italiana”, che contribuisce a redigere da oltre quindici anni. Di recente ha sviluppato interesse per la scrittura letteraria e, per sua istruzione, ha partecipato ad alcuni corsi della Bottega di narrazione con Giulio Mozzi e Fiammetta Palpati. In questo breve scritto c’è il suo incontro con l’opera e la figura di Gianni Celati, verso le quali i nostri laboratori sul paesaggio sono debitori. Spesso, quando ci ritroviamo di persona o in un’aula virtuale, abbiamo sul volto quell’espressione un po’ beota – ingenua e disincantata, ispirata e ironica, divertita e compunta – che hanno i parenti e gli amici che Gianni Celati condusse e seguì su un pullman di colore azzurro, lungo la Strada provinciale delle Anime, nel 1991: quella di viaggiatori in casa propria. fp]

Ho conosciuto Gianni Celati, come autore, alla Bottega di narrazione. Giulio Mozzi mi consigliò di leggerlo per capire un po’ meglio la mia (e qualsiasi) scrittura. Non me ne innamorai, anzi. Le avventure di Guizzardi  mi sembrarono gravate di ideologia, la cosa che meno sopportavo. Lessi con più curiosità e piacere i racconti. Quando arrivai a Condizioni di luce sulla via Emilia, mi trovai davanti un capolavoro in venti pagine, fatto di minimi termini e di tanta metafisica e fascinazione letteraria da riuscire a sfamare chiunque. Con questo, non avevo appreso molto di più sulla mia scrittura, se non per differenza. Però avevo osservato il percorso fatto da quello scrittore un po’ strampalato, lo avevo trovato accidentato e difficile e questo non mi rassicurava sul cammino che mi stava davanti. L’incontro con Celati però non doveva finire qui. La Bottega di narrazione lo teneva davvero in speciale considerazione.

Toccò stavolta a Fiammetta Palpati di riaccostarmelo di nuovo. Nel corso il «Paesaggio del romanzo» sentii parlare di Luigi Ghirri, il grande fotografo italiano che negli anni  ’60 scoprì che si poteva guardare il paesaggio con gli occhi disincantati di un particolare tipo di modernità. Erano lenti, quelle di Ghirri, che dicevano la nudità di ciò che è spoglio, la trascuratezza dell’abbandonato, la desolazione della fabbrica svuotata e lo facevano senza vergogna, senza nostalgia, senza commiserazione. Il fotografo frequentava immagini quotidiane, ma le accompagnava con un’armonia sommessa che, da sola, sollevava quei frammenti del mondo appena un po’ al di sopra del piano d’appoggio. E con ciò li salvava. Per pochi istanti. Per uno sguardo. Ma li salvava. Dalla morte. Quei frammenti erano pure la materia dei film di Celati. Strada provinciale delle anime, scelto da Fiammetta, lo vidi coi compagni di corso al Cineforum del «Paesaggio del romanzo». Scherzammo, cogliendo giustamente quanto di buffo, di irrazionale, emergeva dalla storia. Eppure lì, con quelle immagini spezzettate, indeterminate, insensate, lo scrittore, lavorando come regista, era riuscito a mostrare più immediatamente il suo mondo: quello emotivo, fatto dei luoghi cari della pianura padana, e quello razionale, fatto di frammenti sparsi della realtà, che così gli sembrava dovesse davvero essere. Il frammento era la tessera che univa a colpo d’occhio Celati a Ghirri. Ma, insieme a esso, anche tutto quello che fa del frammento un frammento,  e quel fiume di cose (molteplici cose ciascuna racchiusa nel suo significato) che il confine del frammento trascina con sé. Una realtà scomposta e non ricucibile, perché tale da sempre, che proprio in queste tessere che non si riallacciano ha la sua cifra distintiva e il suo senso. Il senso della gita in pullman sulla strada provinciale delle anime.

È solo dopo questo secondo accostamento a Celati che ho cominciato a capire qualcosa di quello che lui aveva fatto. Anche se razionalmente c’ero già arrivata con la lettura consigliata da Giulio, è stato soltanto dopo aver visto Strada provinciale delle anime che Celati ha toccato le corde giuste del mio cuore, voglio dire di quell’impasto fenomenale di immaginazione, sentimento, razionalità che raccoglie il meglio della nostra vita e ci fa essere quel che siamo. Solo allora ho visto quanto forte fosse in lui il bisogno di esplorare, di tentare il nuovo, di andare alla ricerca, seguendo però sempre più il filo dell’espressione personale che era insieme scoperta del mondo, mondo umano e mondo di cose pareggiati nel loro valore e mai l’uno prevalente sull’altro. Solo allora mi è sembrato di intuire come deve aver cercato di pensare il mestiere di scrittore. Prima potevo ancora pensarlo come l’autore del bellissimo Condizioni di luce sulla via Emilia. Sarebbe stato ben poco. Forse Ghirri e le sue fotografie, immagini mai scolpite e sempre leggermente, molto leggermente, vibranti di partecipazione alle sorti del mondo, avevano suscitato in Celati un pathos, altrettanto leggero e trattenuto, ma comunque un sentimento di accomunamento al mondo, che trapela anche dai comici personaggi del film, risibili ma umani.

So bene che di Celati si possono dire tante altre e più importanti cose, e si diranno senz’altro da chi saprà farlo adeguatamente e con diversa cognizione. So che Gianni Celati è stato tanto di più di quello che si trova in questa paginetta. Per me, però, è indissolubilmente legato alla Bottega di narrazione, a Giulio Mozzi e Fiammetta Palpati e all’esperienza di scrittura con loro, che ho imparato a riconoscere come un’esperienza importante di conoscenza e di vita.

Pillole di paesaggio/9 – Descrizione e immagine

Pillole di paesaggio/9 – Descrizione e immagine

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. Questa è la volta di «descrizione» e «immagine». fp]

Vi ricordate la vigna di Renzo? Siamo nel capitolo xxxiii dei «Promessi sposi» (quello che comincia con don Rodrigo che si scopre ammalato di peste); Renzo torna al paese, dà un’occhiata alla propria casa, e scopre che la sua piccola vigna è diventata una giungla:

«Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. […] Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi insomma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. […] Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle loro foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli; là una zucca selvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avvitacchiata ai nuovi tralci d’una vite…»

Nell’edizione originale del romanzo, quella del 1840, accanto a questa pagina sta l’incisione di Francesco Gonin. L’immagine fiancheggia la descrizione, la descrizione fiancheggia l’immagine. Lo scopo di descrizione e di immagine però è diverso. La descrizione vuole far sì che il lettore si avvicini all’oggetto e si soffermi, l’immagine glielo mette tutto sott’occhio; la descrizione è analitica, l’immagine è sintetica; la descrizione rallenta e quasi ferma il tempo della narrazione, l’immagine è un lampo.

I pericoli della descrizione li sappiamo tutti: già il poeta latino Orazio invitava a non rivestire di troppo virtuosismo lessicale e stilistico, di troppi panni fastosi e colorati (magari di costosissima porpora) ciò che il lettore deve vedere: paradossalmente certe descrizioni, tanto più vorrebbero esaurire l’immagine, tanto più rischiano di celarla alla vista.

Raccontare un paesaggio non significa riversare sul lettore (che è spesso abituato, lo sappiamo, a «saltare le descrizioni») miriadi di minimi dettagli. Significa mettergli sotto gli occhi i dettagli necessari affinché nella sua mente si formi, non istantaneamente ma neanche troppo lentamente, un’immagine: che poi resterà impressa nella memoria.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/8 – Simboli e oggetti correlati

Pillole di paesaggio/8 – Simboli e oggetti correlati

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. Questa è la volta di «simbolo» e «oggetto correlato». fp]

Nell’antica Grecia due persone che stringevano un patto spezzavano un oggetto di terracotta. Ciascuno conservava una delle parti, inevitabilmente diseguali ma combacianti lungo la linea di frattura, a riprova dell’esistenza dell’accordo. Questa consuetudine, e l’oggetto che veniva spezzato, sono all’origine della parola simbolo: due che fanno uno. Uno fatto da due. Basta fare una passeggiata per incappare in oggetti (ma anche animali, luoghi, gesti, colori, eccetera) che richiamano idee, valori, molto distanti (e anche per nulla somiglianti).

«Un caminetto», si dice, «fa sempre famiglia». In effetti il caminetto ― un fuoco acceso in un ambiente domestico, atto a scaldare, cuocere, illuminare ―  «mette assieme» oltre alla concretezza e alla funzionalità, la protezione che deriva delle mura domestiche, del calore, del cibo; e dunque l’idea di famiglia e, per estensione, di quella di amore come appartenenza.  Il caminetto è dunque un «simbolo» (anche amministrativo: una volta le tasse non erano addebitate alle persone, ma ai «focolari»). Cogliamo il valore simbolico del focolare poiché l’esperienza che ne è alla base fa parte della nostra civiltà, è un patrimonio comune, se non universale.

Ma ci sono simboli, diciamo così, «condivisi», e simboli «privati». Può capitarci di stabilire, in maniera spontanea o volontaria, delle relazioni precise tra oggetti, luoghi, eventi ― e contenuti personali: stati d’animo, sentimenti, reminiscenze. Lo facciamo fin da bambini: pensate a Linus che non sa staccarsi dalla sua coperta: che è calore, protezione, casa, mamma.

Certi pezzi del mondo esterno diventano così simboli di certi altri pezzi del mondo interno, quello che solo è nostro. E può accadere che le storie si affaccino alla nostra coscienza attraverso immagini di oggetti, luoghi, paesaggi, che noi crediamo siano davvero certi oggetti, luoghi, paesaggi, ma in realtà sono  portatori, quasi messaggeri del nostro mondo interiore. Le immagini, si dice, sono «correlativi oggettivi» di «cose» che stanno dentro di noi.

 Scoprire come creiamo le immagini ― cioè come stabiliamo correlazioni tra contenuti interni e oggetti esterni ― equivale a scoprire come funziona la nostra creatività.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/7 – Atmosfera e tono

Pillole di paesaggio/7 – Atmosfera e tono

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. Questa è la volta di «atmosfera» e «tono». fp]

Vi siete mai chiesti il colore, o il suono, la tonalità della vostra storia?

Per esempio, se state scrivendo un giallo, un rosa, siete orientati a un genere; già se pensate al noir state aggiungendo al genere qualcosa di più che è l’atmosfera. Una sorta di aura scura che avvolge la storia e che ne influenza lo sviluppo e gli esiti, o ne è influenzata. Ciò che determina l’atmosfera sono le condizioni di luce, di umidità, di temperatura, di pressione, di vento. Cosa hanno a che fare questi fattori ambientali con la scrittura? Ecco, questi elementi sono nel set, nell’ambientazione – o più propriamente nel modo in cui i personaggi vedono, sentono, il mondo che li circonda. Anche l’umore, lo stato d’animo, un sentimento fanno parte dell’atmosfera. Ma sono anche nella scrittura.

Esiste un certo tipo di commedia – soprattutto americana – definita brillante, dove la vicenda non solo è trattata con leggerezza e umorismo come ci si aspetta dal genere, ma anche con una “finitura” che riflette la luce. Questo è piuttosto intuibile nei film dove si può lavorare sulla fotografia (anche se coinvolge una serie vasta di scelte: dagli ambienti, agli abiti, ai filtri) sui ruoli e il carattere dei personaggi (nella tradizione l’attore brillante è un giovane che interpreta un ruolo vivace, spiritoso), sui dialoghi che sono appunto arguti, divertenti, e dal ritmo incalzante. Ma un racconto come fa a essere brillante? A riflettere luce vivida, cangiante? A essere limpido, a imporsi all’attenzione?

La propria immaginazione va letta come una fotografia, un brano musicale, una pietanza. La propria lingua deve poter rispecchiare anche la luce – netta, tagliente e chiusa quando vuole brillare – morbida, allungata, aperta quando vuole avvolgere, sfumare.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/6 – Generalizzazione e genericità

Pillole di paesaggio/6 – Generalizzazione e genericità

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. Lo scarto tra «generalizzazione» e «genericità» è la questione che affrontiamo in questo articolo. fp]

Di quanti alberi conoscete il nome?

A occhio e croce, mediamente, ne riconosciamo una quindicina, in cui rientrano senz’altro il pino (anche se qualcuno lo confonde con l’abete) l’olivo, la quercia. Non a caso gli ultimi due sono abbastanza noti da essere stati scelti come simboli di schieramenti politici. Già se dicessimo ontano, il numero di coloro capaci di rappresentarsi la forma della foglia, il portamento dei rami, i frutti maturi e i frutti acerbi di un ontano, diminuirebbe spaventosamente. Se scrivessimo salice è assai probabile che molti lettori penserebbero ai leggerissimi rami penduli del salice piangente, e non a quelli altrettanto sottili, ma eretti e svettanti del salice viminale (sì, quelli con cui si fanno i cesti di vimini).

Questo discorso riguarda gli alberi, ma vale lo stesso per la numerosa – e potenzialmente infinita – varietà di oggetti ed esperienze. L’«albero» in natura non esiste. Come non esistono i «cani», le «maglie», i «libri», le «persone»: esiste Diana, il mio Amstaff, esistono Xina e Biorn, i due lupi cecoslovacchi dei miei vicini di casa; esistono le girocollo e le t-shirt, esistono la «Divina commedia» illustrata dal Doré e «I promessi sposi» col commento di Giovanni Getto, esistono Mario Draghi e Samantha Cristoforetti. I concetti generali ci servono per orientarci nella meravigliosa e spaventosa varietà degli oggetti esistenti; senza di loro dovremmo, di fronte a qualunque oggetto, non riuscendo nemmeno a incasellarlo in uno schema generale, cominciare col domandarci «E questo cos’è?».

Tuttavia, nel momento in cui cerchiamo qualcosa di più di una comunicazione funzionale – nel momento in cui vogliamo, per esempio, fare della letteratura – allora scegliamo le parole con attenzione. Non attiviamo soltanto il nostro vocabolario, ma soprattutto la nostra capacità di distinguere, ridurre, cogliere analogie e differenze, alla fin fine di vedere ciò che di unico quel determinato oggetto o quella determinata esperienza rappresentano.

Il passo dalla generalizzazione (o astrazione) alla genericità – cioè alla superficialità, alla mancanza di precisione, alla sciatteria lessicale – è breve. Per generalizzare occorre saper guardare attentamente, consapevolmente; occorre saper contemplare la varietà – la varietà della varietà della varietà delle querce, degli ontani, dei sorbi – per poter decidere se tenerla, o tornare a scrivere “albero”, lasciando che il lettore riempia con il proprio immaginario il termine generale.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/5 – Mimesi e stile

Pillole di paesaggio/5 – Mimesi e stile

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. «Mimesi e stile» è la coppia su cui ragioniamo in questo articolo. fp]

Scriviamo imitando il mondo o stilizzandolo?

Naturalmente entrambe le cose, e contemporaneamente. Una novella, una descrizione – ma anche un disegno, una composizione musicale, una coreografia – è sempre in relazione a quel modo di sperimentare il mondo sensibile che chiamiamo realtà, e di cui fa parte, per esempio, la capacità di suddividere, dare un ordine e correlare gli eventi in modo significativo, cioè di fare una narrazione. Anche quando stravolge il modello essa è sempre un’immagine, una riproduzione somigliante: è mimesi, termine che deriva dal greco il cui primo significato è, appunto, imitare. Ma una narrazione è anche, e sempre, e contemporaneamente, una interpretazione del modello, cioè una stilizzazione, anche quando si dispone alla più umile e impersonale delle descrizioni (per esempio quella del «c’è e ci sono»). Se prendo la penna (e d’altronde «stile» deriva dal latino «stilo», cioè «penna») io stilizzo, rendo mio, interpreto con un’immagine e rendo inconfondibile ciò che produco.

Ma allora perché con rappresentazione realistica (o mimetica) e rappresentazione stilizzata si intendono due cose diverse e quasi opposte? Perché la stilizzazione è ciò che rende più semplice e universale una comunicazione e, contemporaneamente, lo stile è ciò che la rende più distinguibile?

Prendiamo ad esempio la fiaba popolare, di tradizione orale, che è tra le narrazioni più stilizzate, in cui tutto – personaggi, vicende, dialoghi – sono semplificati al massimo, cioè ridotti all’essenziale.

«C’era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò a una locanda a chiedere alloggio. – Qui posto non ce n’è, – disse il padrone, – ma se non hai paura ti mando in un palazzo».

In questo incipit di «Giovannin senza paura» (una delle «Fiabe italiane» raccolte da Italo Calvino) il paesaggio, inteso come ambientazione, è ridotto a tre sostantivi: mondo, locanda e palazzo. E neanche un aggettivo. Poco, pochissimo; ma tutto quello che serve perché la narrazione esista e abbia senso.

Tutta l’arte occidentale è segnata da un susseguirsi di fasi e di ricorsi: stilizzazione, realismo, idealizzazione, espressionismo. Ma alla base di ogni linguaggio raffinato, evoluto, personalissimo, c’è sempre una ricerca di ciò che è essenziale.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/4 – Cornice e campo

Pillole di paesaggio/4 – Cornice e campo

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. «Cornice e campo» è la coppia su cui ragioniamo in questo articolo. fp]

Il pittore esegue il quadro, una cornice sarà applicata poi; il più delle volte non dal pittore stesso ma dall’acquirente o dall’intermediario (commerciante, gallerista, semplice corniciaio). Nei casi più fortunati la cornice avrà una relazione, per esempio stilistica o cromatica, con il quadro; oppure la cornice sarà minimale, potrebbe, per così dire, nascondersi per non rubare attenzione al quadro.

Ma il pittore, in realtà, ha già applicato una propria cornice: il telaio che regge la tela, e che delimita quella porzione di spazio che è destinata a ricevere senso accogliendo la pittura, accogliendo quella porzione del continuum spazio-temporale degli eventi, del narrabile, dell’esperibile, che l’artista ha scelto di rappresentare, inscenare, rielaborare, trasfigurare, narrare, simbolizzare.

Qualcosa di simile accade anche nella narrativa: copertina, formato, grafica – talvolta titolo –  sono scelti dall’editore che fa come farebbe un gallerista o un corniciaio: sceglie in relazione a ciò che ha nel proprio catalogo e a ciò che gli altri editori mandano in libreria. Certo, qui stiamo considerando storie e dipinti come oggetti, come prodotti, non come qualcosa che esista al di là del proprio aspetto concreto e finanche riproducibile. Ma pensate che anche nelle espressioni artistiche più effimere e meno legate a un oggetto finito, come per esempio la performance art, la cornice, cioè lo spazio-tempo, il luogo e il momento in cui avviene l’atto artistico, è ancora più determinante. 

Una volta, in prima elementare, prima ancora di imparare a scrivere si imparava a fare le «cornicette», con le quali si contornava la pagina. A che cosa servivano? Erano un esercizio all’ordine – un ordine di esecuzione, ma anche di osservazione; sviluppavano la manualità fine e, soprattutto, il senso dello spazio di lavoro. Il bambino, trasformando in cornice il bordo della pagina di quaderno, era come dicesse: questo è il mio foglio, qui sono le mie scelte, qui il mio ordine, le mie parole, le mie immaginazioni, i miei pensieri, il mio nome. Le cornicette invitavano a considerare ogni compito svolto una piccola opera.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/3 – Determinazione e sfocatura

Pillole di paesaggio/3 – Determinazione e sfocatura

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. «Determinazione e sfocatura» è la coppia su cui ragioniamo in questo articolo. In copertina una fotografia di Olivo Barbieri, gentilmente concessa dall’autore. fp]

Ciò che è vicino è definito, ciò che è lontano è sfocato. Questo all’esperienza degli occhi, almeno; e delle orecchie – diciamo quindi dei sensi. E una rappresentazione che voglia essere realistica (sia essa un dipinto, un romanzo o qualsiasi altra forma di racconto del mondo) – considerando in questo caso realismo il tentativo  di riprodurre l’effetto dei fenomeni come naturalmente vengono percepiti (o elaborati) – rispetta, in linea di massima, questo principio. Per questo la rappresentazione del paesaggio, che nell’arte come nella letteratura è (o è stata) principalmente sfondo, fondale in lontananza, comporta una perdita di particolari: oggetti ed esseri umani appaiono avvolti nell’indeterminazione. Le masse hanno più rilievo dei contorni; le linee, cioè i limiti tra una cosa e l’altra, la fine di un oggetto e il principio di un’altra, non sono nette.

Un albero e un muro scrostato, alla distanza, possono apparire come un’unica massa cromatica. Che l’albero sia un cipresso o un abete ha poca importanza, ciò che importa è che esso faccia tutt’uno col muro, e che la scrostatura dell’uno sia la scortecciatura dell’altro. Una parola – massimo due – è sufficiente a collocarli entrambi sulla scena, e vi invitiamo a cercarla.

Al contrario: una ricchezza di particolari, di minuzie, di specialismi, avvicina il lettore, lo fa concentrare, lo trastulla; e lo distrae. Questo non è un male, e neanche un bene. È un effetto, e dobbiamo esserne consapevoli. Possiamo avvicinarci e mettere a fuoco – obiettivo e lingua; o possiamo restare nella distanza, accettare l’indeterminazione; o creare una sfasatura: avvicinarci, non usare non gli occhi e nemmeno le orecchie, ma il senso della prossimità: il tatto, la pelle, il corpo.

Così come un buon obiettivo fotografico è in grado di mettere a fuoco – cioè di rendere nitido – ciò che è lontano, la narrazione può fare altrettanto attraverso una scelta di lessico e di ritmo (e quindi di sintassi). Il fitto di un bosco può anche essere reso dall’infittirsi di termini che evocano oscurità, ombra, umidità, odore di funghi e putrefazione dal sottobosco, piccoli rumori di animali. 

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.