Laboratorio residenziale a Polino: «Terni e la fabbrica totale»

Laboratorio residenziale a Polino: «Terni e la fabbrica totale»

Sono aperte le iscrizioni al laboratorio residenziale «Raccontare il paesaggio 2024» che si svolgerà a Polino, in provincia di Terni, durante il ponte festivo del 25 aprile. Si tratta di un laboratorio tematico progettato e condotto da Fiammetta Palpati, con la collaborazione dell’urbanista Maria Chiara Tosi, in cui si esplorerà e si ragionerà sul paesaggio industriale e postindustriale, finalizzato ad approfondire i rapporti tra paesaggio, narrativa e industria e produrre un racconto; i testi meritevoli comporranno l’Annuario Raccontare il paesaggio 2024. Non è prevista selezione. Ci si iscrive facendone semplicemente richiesta via email a bottegadinarrazione@gmail.com

Il costo è di 600 euro + iva (totale netto 732). E’ possibile richiedere una rateazione.

E’ consigliabile lasciare una recapito telefonico e chiedere un colloquio con la docente, sia per conoscersi che per le questioni logistiche.

Programma

Mercoledì 24 aprile. Pomeriggio arrivo e sistemazione a Polino (Tr) presso l’Hotel soggiorno Don Bosco. Cena e cineforum.

Giovedì 25 aprile. Mattina. Visita alle Fornaci di Fornole.
Pomeriggio in aula. Analisi del testo “Il sito invisibile” utilizzato per la visita al buio. Discussione sulla scrittura attivatrice di sensorialità.

Venerdì 26 aprile. Mattina e pomeriggio, con pranzo al sacco.
Papigno e l’ex stabilimento elettrochimico. Le cave di Monte S. Angelo. La tranvia Terni-Ferentillo. La ex Centrale elettrica di Galleto. La vasca Cassiani-Bon della ex centrale di Cervara.
Rientro alla base e cena nel ristorante dell’Hotel Don Bosco. Discussione.

Sabato 27 aprile.  Mattina e pomeriggio con pranzo al sacco.
La fabbrica d’armi. Le Acciaierie. Le case operaie. Il palazzone e il grattacielo di viale Brin. Il Caos. Il villaggio Matteotti progettato da Giancarlo De Carlo. Il polo plastico. Il villaggio Polymer. Il villaggio di Nera Montoro.
Rientro alla base e cena nel ristorante dell’Hotel Don Bosco. Discussione.

Domenica 28 aprile
In aula. Discussione sulle visite, i materiali raccolti, le idee e le proposte di scrittura. Pranzo presso il ristorante dell’Hotel Don Bosco. Partenza.

I singoli progetti verranno seguiti nelle loro stesure nella consueta aula virtuale di Zoom e attraverso la lista di discussione. I lavori meritevoli comporranno l’Annuario di Raccontare il Paesaggio 2024.

Dove soggiorneremo

Il gruppo risiederà presso l’Hotel Soggiorno Don Bosco, a Polino in provincia di Terni (836 m. slm),
sull’Appennino tra Rieti e Spoleto, a pochi chilometri dai siti industriali oggetto dell’esplorazione. La struttura è dotata di una dépendance per gruppi, con camere doppie o singole con bagno, sale comuni per il lavoro d’aula, e un ottimo ristorante con cucina locale. Il costo orientativo del soggiorno in
pensione completa (sono previsti 2 pranzi al sacco), è di 60 euro al giorno in camera doppia e 70 in camera singola. Totale soggiorno: 240 euro in doppia; 280 euro in singola. È previsto un contributo per il servizio navetta da e per la Stazione Ferroviaria di Terni.

Lo stile e lo stare al mondo: il sublime al tempo presente

Lo stile e lo stare al mondo: il sublime al tempo presente

di Fiammetta Palpati

[L’articolo prende spunto dall’introduzione all’Annuario di Raccontare il paesaggio 2023, Sperimentare il sublime nello spazio contemporaneo, a cura di Fiammetta Palpati]

A parte davanti a una carbonara ben riuscita avverto un certo imbarazzo a tirare in ballo il sublime. Oggi il sublime è una presenza fantasmatica, legata a reminiscenze scolastiche e circoscritta a determinate sfere artistiche. Insomma una cosa dotta, e un po’ vecchiotta. In effetti il primo uso di «sublime» lo fece proprio la retorica antica; aveva valore di aggettivo e qualificava l’opera o l’autore di valore eccelso, ineguagliabile, inarrivabile, oltre il quale non era possibile andare poiché raggiungeva il limite; uso giustificato, peraltro, da una delle etimologie del termine – quella più intuitiva e diffusa, per la quale nel sub-limen latino sub varrebbe come «sotto», e limen come «soglia»: quindi, propriamente è sublime ciò «che giunge [o che ci fa giungere] fin sotto la soglia più alta».

Ora, per la retorica antica le qualità eccellenti (e incomparabili dal momento che il superlativo è assoluto) erano appannaggio di uno stile oratorio alto e solenne che conveniva agli argomenti seri, tragici, epici; uno stile che l’autore cercava di ottenere per muovere alla partecipazione, al trasporto emotivo (non, o solo in un secondo momento, alla persuasione): lo stile sublime, o sublime tout court. Ma come possiamo riconoscere il sublime come emozione? Si tratta soltanto di un intenso turbamento? Ai limiti del tollerabile? O c’è qualcos’altro? Nel primo testo interamente dedicato a questo modo del discorso (un trattato del I secolo, in lingua greca, generalmente tradotto in italiano come Sul sublime, di autore non identificato ma comunemente chiamato Pseudo Longino) si parla di un crescere su sé stessi. La sensazione sublime mi apre l’animo, mi fa gonfiare, espande l’io, come se la grandezza di quell’opera, di quell’autore, fosse anche la mia grandezza. E fin qui tutto sembra abbastanza lineare: abbiamo un modo del discorso, uno stile – chiamiamola pure una tecnica – e abbiamo una emozione (di cui, attenzione, partecipano autore e fruitore) che si muove tra due limiti: un alto e un basso, un tutto e un nulla, un pieno e un vuoto.

Ma abbastanza precocemente l’ambivalenza di «sublime», che indicava tanto lo stile quanto la sensazione, si arricchisce di ulteriori valenze, e finisce per diventare un soggetto autonomo. A partire dal tardo Seicento, segnatamente da quando il trattato antico dello Pseudo Longino comincia a essere molto conosciuto grazie alla traduzione in francese a opera di Nicolas Boileau, esso contempla sia un ragionamento filosofico (imperniato sulla relazione tra uomo, natura e cosmo di cui il sublime rappresenta, appunto, una delle possibili relazioni), sia una sfera dell’arte, del gusto, della sensibilità che sente ed esprime – e si esprime con – il sublime, cioè a partire da e per finire con – quel tipo di relazione. È nata, in sostanza, l’estetica moderna dove bello e sublime (che del bello non era, al principio, che il fratello cadetto) cammineranno paralleli, si affiancheranno e si opporranno nel rappresentare un modo di sentirsi nel mondo, di pensarsi nell’universo.

È la natura nei suoi aspetti più violenti, più selvaggi, più incontenibili (i loci horridi dell’antichità) a fornire all’artista tra Sette e Ottocento, le occasioni per sentire il sublime. Sono i luoghi e i fenomeni naturali – soprattutto quelli distruttivi – che mettono l’uomo nelle condizioni di sperimentare un senso di nullità e di grandezza insieme. Ma, mentre possiamo capire facilmente da dove ci viene il senso di nullità di fronte a un’eruzione vulcanica, da dove nasce la grandezza? Cosa mi fa crescere su me stesso davanti a un disastro? La possibilità di sentirmi allo stesso tempo dentro e fuori quella manifestazione. Dentro perché parte del mondo naturale; parte – sebbene non più centrale – del creato; e fuori perché in grado di contemplarla, guardarla, rappresentarla, farne paesaggio, recuperando in questo modo una forma di centralità, di potenza. Il mondo ha cominciato a essere paesaggio quando, in epoca moderna, a partire dallo sguardo l’uomo consolida la possibilità di contemplarlo, e quindi di avvertirsi anche esterno. Il soggetto perde la centralità ma guadagna una mobilità dello sguardo che altera l’equilibrio, la simmetria, l’armonia degli elementi, ma gli consente di muoversi e anche di sperimentare pericolosi avvicinamenti, distorsioni della forma, delle dimensioni, della materia. Tra l’uomo che guarda e il mondo, tra l’io e la natura, c’è un io che comincia ad avvertirsi dentro e fuori: è l’io sublime. Questa parabola moderna, che vede legati il sublime e il paesaggio, culmina con la pubblicazione, tra Sette e Ottocento, di una serie di testi di natura filosofica e critica che esaminano e/o danno ragione di una torsione nell’arte. Dalla scultura alla pittura, dalla poesia alla letteratura e alla musica la ricerca del bello passa in secondo piano rispetto a quella del sublime. È il momento di massimo fulgore dell’estetica del sublime naturale, che tocca il suo apice nel XIX secolo con il Romanticismo. Da questo apice di popolarità la curva del sublime comincia a scendere: un declino della sensibilità, della prassi poetica e del discorso teorico che prosegue per tutto il Novecento.

Oggi parlare di sublime è fuori moda. Ripeto: sa di vecchio.

Eppure è tutt’altro che morto. E non solo perché, come sostiene Massimo Fusillo in Esperienze del limite. Il sublime e la sua ricezione moderna[1] – è sopravvissuto alla post modernità attraverso l’estetica kitsch e camp (che rappresenterebbero due forme di sublime mal riuscito, abortito in partenza, deviato dalla sua traiettoria) ma perché alcuni temi attualissimi, portati su un piano esistenziale e trascendentale, hanno trovato espressione attraverso un’estetica sublime. Un film come Melancholia, di Lars Von Trier, o l’istallazione I sette palazzi celesti di Hanselm Kiefer, nell’hangar Pirelli Bicocca a Milano – alcune delle opere esaminate da Fusillo – non sono semplicemente delle opere sublimi – lo sono; sono delle opere in cui il sublime è declinato in tutta la sua sostanza: suscitato, analizzato, storicizzato e tematizzato fino a risalirne le origini, i temi, i simboli, i linguaggi, la tradizione, gli autori. Un’estetica che non teme di osare, alzare l’asticella, pretendere, e molto più vitale di quanto non farebbe credere lo stato di illanguidimento del discorso teorico.

Forse soffriamo semplicemente di una sorta di analfabetismo per il sublime. Non lo sappiamo leggere e neanche sentire. Tramontati i modelli formativi eroici che esaltavano un certo linguaggio emotivo, e assuefatti da una sovraesposizione mediatica a stimoli forti (paura, sorpresa, eccetera) ci siamo desensibilizzati. Per alfabetizzarci al sublime forse dovremmo guardare il nostro mondo, il mondo della globalizzazione, la nuova era – il postulato antropocene –  in una prospettiva meno ideologica che non escluda – che non escluda almeno moralmente – il sublime. Forse per la sua capacità di contemplare, contemporaneamente, le estremità – l’orrido e l’eccelso, il nulla e la totalità – il sublime potrebbe essere più utile o calzante di aggettivi e categorie estetiche come bello, giusto, vero, o tragico, che usiamo paradossalmente con più disinvoltura.


[1] M. Fusillo, Esperienze del limite. Il sublime e la sua ricezione moderna in Sul sublime, a cura di S. Halliwell, traduzione di L. Lulli, Milano, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, 2021.

Recanati non esiste

Recanati non esiste

di Lidia Massari

Lidia Massari, instancabile viaggiatrice critica, con Recanati non esiste resta nella propria città. Il testo di Massari, ispirato dichiaratamente e sin dal titolo al geniale Esiste Ascoli Piceno? di Giorgio Manganelli (articolo uscito su una rivista marchigiana negli anni ’80 e ripubblicato da Adelphi, unitamente a 10 cartoline di Tullio Pericoli, nel 2019) ne ribalta tuttavia la premessa. Se Ascoli Piceno (città poco conosciuta e poco immaginata) era, per il lettore italiano medio, un nome sulla carta geografica, un nome da mandare a memoria tra quelli delle provincie italiane, e un vuoto di luogo, Recanati è invece un nome pieno, un nome saturo di racconto: il racconto della poesia e del poeta. Divenendo il tempio della celebrità la città ha finito con il voler assomigliare al set della creazione poetica. Dunque raccontare Recanati cominciando col negarne l’esistenza è, per l’autrice l’unico modo (o almeno l’unico che non somigli all’ennesima – giustificata ma, ahimè, trita – lamentazione sullo snaturamento dei luoghi a beneficio memoriale e turistico) per l’esercizio del suo occhio critico. Ma questo testo – nato in seno al nostro laboratorio «Il tracciato e la città» tuttora in corso di svolgimento – apre anche una breccia nella convinzione dell’esistenza dei luoghi tout court – cioè al di fuori di una esperienza circoscritta di stanziamento, uso, movimento e, nondimeno, di rappresentazione simbolica come potrebbe essere una qualsiasi forma di narrazione: una mappa come un ricordo, un ricordo come un sogno. [fiammetta palpati].

Non è che non si voglia scrivere della città di Recanati. È che non si può; nessuno potrebbe, dato che l’esistenza di una città così nominata dovrebbe prima essere dimostrata; poiché il fatto che una mappa –satellitare poni caso – mostri un territorio collinare definito da due fiumi che scorrono paralleli verso il mare Adriatico (esempio da manuale di deposito alluvionale), nonché degli insediamenti abitativi riconducibili ad epoche lontane fra loro, diciamo – a spanne –, dal Medioevo ai giorni nostri, e persino una piazza che appare senza ombra di dubbio come il centro del centro cittadino, ebbene, tutto ciò non autorizza a pensare che la città che chiamano Recanati esista davvero.

   Come si può parlare di una città che non ha nemmeno un nome? Ricina era una grande città romana, ma stava a quasi venti chilometri da qui, e venne distrutta dai Goti; e non è certo il legame fra quei profughi e l’atto fondativo della città. Se proprio si deve pensare a fondatori romani, c’è una città romana proprio qua sotto, a tre chilometri, ma si chiamava Potentia. E comunque, che vuol dire Recina? Chi propende per Venere di Erice, chi a una radice slava, quella della parola “fiume”, come in Rijeka; e, in dialetto siculo, “andare a recanati” significa vomitare – signora, che busta sceglie? la uno, la due o la tre?

   Come si può parlare di una città senza partire da un centro? Ma Recanati un centro non ce l’avrebbe… No, mi correggo, eccolo, è chiaro dai colori: rosso mattone, palazzi antichi; condomini anni Settanta dai colori improbabili (e ancora più brutti dopo i cappottini fatti col 110%); mattoncini facciavvista della villettopoli pedecollinare. Tuttapposto: borgo normodotato, il cui centro storico si snoda intorno alle tre vie principali che si rincorrono sul crinale del colle, formando una sorta di “L”, a metà del lato lungo della quale si apre la grande piazza circolare al cui centro campeggia la statua, cupissima, del più illustre cittadino di Recanati, quello che i local chiamano «il pupo». Ma la bella piazza circolare lastricata di fresco col centro non c’entra: l’hanno inventata squartando il sagrato della chiesa di san Domenico, abbattendo il vecchio palazzo comunale, isolando la cosiddetta torre del borgo, innalzando un nuovo, gigantesco municipio in mattoncini e pietra calcarea, dallo stile eclettico, dal colore che vira al rosa, impresa mirabile costata quelli che oggi sarebbero miliardi, e tutto per onorare per i suoi primi cento anni il povero Buccio, Muccio, Giacomino nostro, che, ingobbito nel suo mantello, sembra che abbia voglia di piangere, smarrito in mezzo a una piazza che ai tempi suoi nemmeno c’era.

   Ma lasciamo queste vecchie storie noiose: bisogna spiegare bene perché si sta cercando di evitare il compito gravoso, insopportabile e assurdo di scrivere di una città che non esiste. Gli abitanti di Recanati, questa è la verità, da quello che tutti chiamano “centro”, fuggono come da una disgrazia; gli unici luoghi davvero attrattivi, quelli nei quali si formano talora lunghe file e, di fuori, i capannelli dei pensionati, per chi imbocca corso Persiani (senso unico) in macchina sono: le poste, la banca (ex Cassa di risparmio della provincia di Macerata ex Bancamarche [implosa] ex Ubi). Per il resto, non ci sono negozi, i bar sono tre, uno adiacente all’altro, sulla piazza, indistinguibili nell’offerta comune di taglieri di prodotti tipici, vincisgrassi e insalatone. Il centro storico è una voragine che inghiotte le velleità commerciali di chi periodicamente ci prova, a fare una vetrina di abbigliamento o del pregiatissimo olio di oliva monocoltura “raggia”.

   Per contro, puoi trovare i cittadini di Recanati affollare in orario 7-8, 16-17 (inverno), 18-19 (estate) la circonvallazione che cinge il centro. Questa è una strada con diversi nomi (via Cesare Battisti, via Carducci, viale Nazario Sauro, ex statale 77 della val di Chienti [lo vedi che Recanati non esiste? Non c’è nessun fiume Chienti, qui, quello sta molto più a sud, divide Civitanova Marche dalla provincia di Fermo]), simile a un nastro che circonda con poche deviazioni la vecchia cinta delle mura, di età rinascimentale. Data la natura sottile del centro (possiamo visualizzarne una parte immaginando un rettangolo molto slanciato, con due lati lunghissimi e due ridicolmente corti), questa strada ha uno sviluppo di circa quattro chilometri, ma per passare da uno dei lati lunghi all’altro le distanze sono minime, anche meno di cento metri. Se invece si ha la sventura di guidare un veicolo nel centro di Recanati, i sensi unici costringono il guidatore a percorrere volute barocche per andare da un A a un B che a piedi distano non più di tre minuti. Ma i cittadini di Recanati non hanno senso pratico, e invece di scegliere la via più breve, soprattutto negli orari su indicati percorrono la via delle mura (familiarmente “le mura”), muovendosi al trotto, al galoppo, al passo (spanciando), indossando leggins pesanti e kway (soprattutto nelle serate tiepide della prova costume), occhiali da sole e cuffiette, magliette sintetiche dai colori fluo, affollando i marciapiedi nell’uno e nell’altro senso di marcia, urtandosi, salutandosi a denti stretti, di corsa – mica puoi fermarti –, ingenerando un vorticoso moto centrifugo che svuota la piazza e le vie circostanti, ingloba via via correnti e camminanti e poi li fa schizzare per la tangente e raggiungere alle 20 spaccate il desco familiare.

   Qualunque sia la stagione, alle otto di sera tutte le strade si svuotano, rimangono fuori disadattati e turisti. Si dovrebbe parlare di questo vuoto? Non credo, e comunque non voglio.

   C’è un’ultima ragione che impedisce a chiunque abbia un minimo di senno di parlare di Recanati, la città che può vantarsi di essere finta da più di cent’anni. La signora Recanati, nobile anziana con un glorioso passato, potrebbe ricordare i giorni in cui contendeva ad Ancona il dominio della parte centrale dell’Adriatico, giorni in cui contrattava alla pari con la superpotenza veneziana che qua davanti doveva passare, se voleva andare a mercanteggiare in Oriente; potrebbe ricordare la fiera che durava più di una settimana, e che insieme a quella di Napoli era una delle più importanti d’Italia; potrebbe ricordare il boom economico del Settecento, quando per la prima volta proprio qua, nel maceratese, si sperimentava l’innovazione dell’erba medica, e i profitti agricoli ebbero un picco altissimo, e sorsero ovunque splendidi teatri in miniatura (ce n’è uno anche qua, e quando un qualunque recanatese vede la Scala non può che notare che è uguale al teatro Persiani, solo un po’ più grande); potrebbe ricordare con un po’ di dolore di aver perso Loreto, che era una sua contrada, e la favola stupefacente del trasloco della casa dell’Annunciazione (che è vera: la casa, dico, per l’Annunciazione ci vuole fede). Invece no. La nobildonna, rimasta orfana del suo pargolo più dotato, mai più il suo corpo sarà riportato alla madre patria, tu non altro che il canto avrai del figlio … no, scusate, ho sbagliato volume dell’antologia, inizia un lunghissimo lutto non ancora scemato che già dalla fine dell’Ottocento, quando il figlio era famoso soprattutto per versi dalla discutibile sintassi come “dammi, o ciel, che sia foco agli Italici petti il sangue mio”, la porta a conciarsi così come suo figlio l’aveva immaginata nelle sue trasfigurazioni; un make up che vorrebbe farla assomigliare alla sé stessa giovane madre dello sfortunato figliuolo ma che finisce, come gli interventi estetici mal riusciti, per farla diventare una quinta teatrale buona per mettere in scena le descrizioni borghigiane dei canti ad usum di scolaresche distratte e prof di italiano in pensione che hanno visto il film di Martone.

  Ecco, dovrei parlare di questo buco nero dai ridenti dintorni, dove se ci nasci o ci precipiti vuoi solo scappare, e non riesci, e conduci la tua vita da mosca rimasta appiccicata alla carta moschicida? No, grazie, preferirei di no.

La città vuota e la luna secondo l’intelligenza artificiale.

Il laboratorio monografico «Il tracciato e la città»

Il laboratorio monografico «Il tracciato e la città»

Roland Barthes, che accingendosi a ragionare e a scrivere sulla città e sui segni si definì un amatore di entrambi, ha scritto:

La città costituisce un discorso e questo discorso è una vera parola: la città parla ai suoi abitanti, parliamo la nostra città, la città dove ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola. Tuttavia il problema è di far uscire un’espressione come «linguaggio della città» dallo stato puramente metaforico. È molto facile, metaforicamente, parlare del linguaggio della città come si parla del linguaggio del cinema o del linguaggio dei fiori. Il vero salto scientifico sarà attuato quando si potrà parlare di linguaggio della città senza metafora.

Il laboratorio monografico «Il tracciato e la città» si propone come un percorso di scrittura creativa attraverso gli aspetti concreti, metaforici e psichici legati al grande e attualissimo tema della città [fp].

Per conoscere nel dettaglio il calendario e il programma del laboratorio consulta la pagina dedicata

oppure scarica il Pdf

Melbourne a colori

Melbourne a colori

di Loretta Martignon

[Lo spazio è indefinito e non limitato, la mappa è finita e i suoi limiti sono ben tracciati (non fosse altro che dal bordo del foglio o dal ritaglio dell’immagine). La terra, con i suoi elementi materiali, è assai complicata, stratificata, affastellata: la mappa la dis-piega, la semplifica. Gli elementi sono indistinguibili, la mappa li riordina: li classifica, li isola (o viceversa), li evidenzia (alla bisogna annette una legenda). Questo riassetto è frutto di una severa operazione concettuale che impariamo a fare. A furia di mappare, cioè rappresentare uno spazio (fisico o mentale) attraverso segni e icone, l’operazione ci diventa così familiare che la mappa in sé scompare ai nostri occhi: vediamo, o cerchiamo di vedere, soprattutto quella porzione di spazio che pretende di rappresentare o di spiegare. O, al contrario, vediamo soltanto la mappa, la rappresentazione diventa lo spazio. La terra, come sostiene il geografo Franco Farinelli, diventa la carta geografica; la mappa la sostituisce. Inevitabilmente diamo fiducia alla mappa, come se il solo atto di mappare, il prendersi la briga di fare il rilievo, garantisse aderenza, verità, autenticità. Perdiamo di vista che una mappatura ci offre, e ci impone, un modello di mondo. E finanche, per entrare nello spirito del racconto che segue, una colonizzazione del mondo. Il tono amichevole di Loretta Martignon, che in questo racconto ci ricorda quei loquaci compagni di viaggio che nel parlare tra sé ogni tanto ci rivolgono la parola, ci porta invece, sorprendentemente, nel cuore drammatico dell’identità australiana dove i rassicuranti colori sgargianti della mappa e gli impronunciabili toponimi aborigeni testimoniano e raccontano un processo di colonizzazione ancora apertissimo.

Con il testo «Melbourne a colori» di Loretta Martignon inauguriamo una breve rubrica dal titolo «Una mappa è un racconto». Loretta Martignon è italiana e vive a Merlbourne da vent’anni. Nel gruppo di lavoro oltre a essere stata una sorta di agente all’Avana, ha messo in crisi la nostra idea di città da ex cittadini del Sacro Romano Impero. Buona lettura. Fiammetta Palpati]

Da piccola avevo un mappamondo, di quelli di plastica con l’interruttore, che diventano una lampada. Gli stati erano colorati e creavano arcobaleni politici in ogni continente.

Mi divertivo a farlo girare velocemente dandoci una manata a occhi chiusi per poi fermarlo di colpo con un dito per vedere dove capitavo. Asia, America, Europa, qualche volta l’Africa sahariana, e tanti buchi nell’acqua azzurra degli oceani e dei mari. Forse, ma non ricordo, qualche volta devo aver cercato di muovere il dito verso il basso, per esplorare anche l’emisfero sud, e chissà che non sia capitata su Melbourne.

Il cielo è grigio in questa mattina di maggio. Una pioggerellina sottile macchia i marciapiedi e l’asfalto, ma non fa aprire gli ombrelli o aumentare il passo, già frettoloso, alle persone che si aggirano intorno alla stazione.

Mi siedo vicino al finestrino, sul lato sinistro, per seguire il senso di marcia del treno. Tre anni fa c’era molta più gente a quest’ora del mattino, lo scompartimento quasi si riempiva già dalla prima stazione, ma dopo la pandemia non tutti sono tornati alle vecchie abitudini. Per ora siamo solo io e una ragazza asiatica seduta dalla parte opposta, anche lei vicino al finestrino. Sta mangiando. Dà dei piccoli morsi ad una potato cake, gialla e fritta, che spunta da un sacchetto di carta macchiato d’olio.

Fritto. Per colazione, alle sette e mezza di mattina. Mah.

La città di Frankston è lì, oltre il vetro. Scivola via lentamente, man mano che il treno lascia la stazione. Sfilano le palme allineate al centro del viale, il garage del gommista vicino alla rampa del parcheggio del centro commerciale, la rotonda dove c’è la stazione della polizia con il tribunale a fianco. Poi arrivano, di fretta, i capannoni della zona commerciale e le concessionarie d’auto.

Il treno prende ancora un po’ di velocità, si arrampica sul nuovo ponte sopra l’ingresso dell’autostrada e poi inizia a rallentare per fare la stazione di Kananook. Che nome strano. Aborigeno, di sicuro. Appare in giallo sulla striscia luminosa sopra le porte che separano gli scompartimenti.

Lo ritrovo nella mappa affissa alla parete sopra il sedile, per ora ancora vuoto, che ho di fronte.

La conosco, questa immagine. L’avrò guardata, studiata, esplorata un’infinità di volte in tutti questi anni di avanti e indietro per andare in ufficio.

Eppure, l’occhio curioso mi va lì: indugia, ricerca, percorre, scopre.

Mi piace questa mappa dei treni del Victoria: è colorata. Mi fa pensare a quei libri per bambini, quelli che illustrano il corpo umano sovrapponendo le pagine trasparenti a una sagoma disegnata, mostrando ora lo scheletro, ora l’apparato circolatorio e così via. Le linee del treno spiccano su uno sfondo bianco che distingue in modo netto l’area metropolitana di Melbourne da quella grigio-azzurro delle campagne. Solo le linee regionali, viola scuro, si insinuano oltre il bianco e si piegano come gomiti slogati, spostando i paesi e le città dalla loro collocazione logica per farli stare dentro i limiti del foglio adesivo.

Al centro, le linee colorate dei treni aggirano il CBD, il central business district, quella griglia di strade, ordinate e perpendicolari, che è il quartiere di Melbourne. Da questo rettangolo, vuoto e bianco nella mappa, i colori ferroviari si aprono a raggiera.

Frankston è l’ultima stazione metropolitana sulla linea verde. Parte dal basso, in fondo all’immagine, costeggia l’azzurro della baia, sfiora il rettangolo del City Loop, si arrampica fino a North Melbourne e Footscray, poi ridiscende: un ramo finisce a Williamstown sul mare, e l’altro si insinua nelle campagne di Werribee.

L’origine dei nomi dei quartieri sono tutti mescolati.

Frankston, fondata da un misterioso signor Frank da cui sembra abbia preso il nome, è sulla stessa linea della cittadina di Werribee, con quel nome aborigeno rubato al fiume che la attraversa.

Controllo di nuovo la mappa. Colore per colore.

Sulla linea rosa, quella più corta, quartieri come Sandringham, Hampton, Brighton, così british, sono sulla stessa linea di Prahran, un nome che doveva essere aborigeno, ma che in realtà nasconde un errore ortografico dell’amministrazione locale e chissà, adesso così storpiato, che cosa vorrà mai dire.  

Il suono ritmico annuncia l’apertura delle porte, distolgo lo sguardo dalla mappa per godermi la vista dalla stazione sopraelevata di Carrum. Dal mio finestrino si distingue il giallo spento della spiaggia che si allunga in un ampio arco sul mare e arriva fino ai grattacieli lontani della city, grigi come il cielo che riflettono.

Un uomo sulla quarantina si siede sul sedile di fronte al mio, apre il portatile sopra la valigetta che ha sulle ginocchia e si mette a battere veloce sui tasti.

Lo scompartimento si sta riempiendo. Il treno ha già raccolto maglioni giallo evidenziatore dei carpentieri con gli scarponi infangati, camicette bianche e inamidate delle segretarie, i blazer con lo stemma sul taschino degli studenti delle scuole private e le felpe grigie dei giovani universitari assonnati e spettinati.

Riprendo la mia esplorazione ferroviaria. Allineati lungo la linea blu ci sono i britannici Richmond, Howthorn, Canterbury, ma anche Kooyong, Tooronga e Nunawading. Nomi dati dai clan della Kulin Nation aborigena, parole dai significati misteriosi e incerti, dai suoni difficili che si attaccano alla lingua e si fatica a srotolarli.

La linea rossa si biforca: sotto va verso Hurstbridge, dal nome inglese che combina i termini boschetto e ponte; in alto va a Mernda, con quella enne aborigena così difficile da pronunciare.

La linea gialla è un forcone. E nessuno dei tre denti passa vicino all’aeroporto internazionale di Melbourne. Se ne stanno bene alla larga, lo evitano come se cielo e terra, per qualche motivo, non si dovessero toccare.

Ma anche qui nomi di quartieri come Flemington o Batman – in onore di John Batman padre fondatore delle colonie britanniche non del super eroe dei fumetti – fanno parte delle stesse traiettorie su cui si trova Coolaroo che forse, ma chi sa se è vero, deriva da una parola aborigena che dovrebbe significare serpente marrone.

Alla stazione di Caulfield il treno si svuota di studenti universitari e si riempie ancora di tutti quelli che, come me, vanno a popolare i grattacieli della city, brulicando ogni giorno come formiche, riempiendone i piani fino in alto per abbandonandoli di fretta al primo imbrunire.

La ragazza asiatica non c’è più, al suo posto si è seduto un uomo indiano, si capisce dal turbante che indossa. Le sopracciglia aggrottate creano una ruga in mezzo alla fronte mentre legge il fascicolo che tiene in mano. Al suo fianco c’è una ragazza, sulla ventina: ha un tatuaggio scuro che le spunta dal colletto, le riempie il collo e le sparisce dietro l’orecchio. Ha gli occhi chiusi, ma si capisce che non sta dormendo.

Il treno riprende la sua corsa, puntando dritto verso il centro, dove tutte le linee ferroviarie si incontrano e i colori si intersecano ma non si mescolano.

Come noi, qui, in questo scompartimento, tutti diretti verso la stessa destinazione, ognuno con la sua etnia stampata in faccia, o alla pronuncia e all’inglese strano. Viaggiamo su queste linee disegnate su un foglio trasparente, che si sovrappone alla sagoma, ma non vi appartiene.

Siamo arrivati tutti tardi, dopo che la terra era stata già rubata: siamo solo ospiti, non graditi, in questa città.

Il display luminoso annuncia Flinders Street, la mia stazione. Appena mi alzo uno scossone mi sbilancia, per poco non finisco sulle ginocchia dell’uomo che mi sta di fronte. Mi salvo dall’imbarazzo toccando con due dita la parete sopra il suo sedile, proprio lì, sulla mappa, e riguadagno l’equilibrio.

Mi avvicino alle porte per scendere, e la ritrovo. Con le sue linee ordinate, i puntini scuri delle stazioni, la griglia di riferimento e la lunga legenda dei toponimi sul fondo. È tutto scritto lì, disegnato, rappresentato. È rassicurante, come solo le mappe lo possono essere. Basta un’occhiata per non sentirsi più persi e poter ritrovare la direzione. O per illudersi di far parte di un luogo, anche se lontano e sconosciuto solo perché, magari, lo si può toccare con un dito.

Lo stagno

Lo stagno

di Nunzia Picariello

[«Sublime contemporaneo», il nostro laboratorio monografico sulla scrittura di luogo e paesaggio, si è recentemente concluso (qui ne trovate una sintesi ); il gruppo di lavoro sta ora elaborando i testi che ci auguriamo potranno costituire una iniziale mappa fisico-psichica , in forma narrativa, di luoghi, circostanze esistenziali, forme plastiche, cromatiche, espressive e testuali (in altre parole: di paesaggi) attraverso i quali in questi tempi si cerca, si esprime – si subisce persino – un desiderio di sublime, inteso come «esperienza del limite», secondo la definizione che ne ha data Massimo Fusillo1.

Per Nunzia Picariello, autrice del racconto che pubblichiamo a titolo di anticipazione sulla nostra mappa sul sublime contemporaneo, la partecipazione al laboratorio è stato anche l’occasione per rileggere un proprio testo alla luce di una diversa e illuminante chiave interpretativa. Fiammetta Palpati]

I raggi si riflettono sulla superficie d’argento screziata di porpora, che s’assembla e si smembra con ritmo proprio. Le Koi sono il cuore dello stagno: il loro movimento, una danza di corpi sinuosi, è respiro potente che si propaga concentrico verso il canneto, le ninfee e l’elodea. In modo tale che tutto alita all’unisono. Il laghetto artificiale sfrutta l’acqua del fontanile presente nella proprietà e che, in altri tempi, serviva per la marcita. Con il giusto impianto di depurazione Mario è riuscito a farne il luogo adatto per più di cinquanta carpe. Ne conosce la maggior parte, venera la loro grazia, non smette di stupirsi per i colori vividi delle loro squame: nella loro prigione le carpe diffondono l’infinito.

La sua preferita è una Kohaku con una macchia rotonda sul capo e due screziature rosso profondo sul dorso. La sua pancia è liscia, bianco uovo. Quando porta il cibo alle Koi, queste subito accorrono verso di lui. Protendono il muso verso l’esterno dell’acqua e così facendo, mutano di sostanza: mostrando la faccia corrucciata, gli occhi vacui e impersonali e più sotto, una bocca rotonda incorniciata da baffi, ecco che la loro meraviglia scompare. La Kohaku si avvicina per prima e se ne va per ultima: le labbra polpose si aprono e richiudono in una silenziosa sinfonia per il padrone. Lui sorride e avvicina il viso al pelo dell’acqua. Si baciano.

«A che ora arrivano?» Lei e Mario stanno seduti a terra sul bordo dello stagno.

«Tra poco dovrebbero essere qui» risponde lui. Stanno aspettando la consegna dell’ultimo acquisto: una karashigoi di sessanta centimetri. L’ha molto desiderata.

Sono vicini, le loro spalle si sfiorano. Il vento sbuffa e solleva i capelli lunghi che finiscono per intrecciarsi con i fili di barba sottile. Lei si stringe un po’ tra le braccia; lui si volta a guardarla: ha lo sguardo dritto, il naso piccolo, lo zigomo alto e rosato. Le cinge allora la vita e la stringe a sé. Lei contorce la bocca in una smorfia; un piccolo grido le sfugge lieve, ma si affida alla stretta e lascia ricadere lenta la testa sulla spalla di Mario.

«Ti fa male?»

«Un po’» risponde lei.

«Eccoli.»

Dal fondo del viale, si intravede un furgoncino. Il cancello elettrico si apre e i pneumatici scrocchiano sopra il ghiaino risalendo la strada. Mario li guarda e sente una palpitazione prenderlo: ecco, la cosa. Quella cosa che s’approssima alla felicità, anche se non ne conosce il nome. Ma il sapore sì. Ed è quello che sente adesso sotto la lingua. Lei lo guarda e ne riconosce i tratti: in fondo agli occhi del dominus vede quello che l’ha spinta fino a lì. Quella cosa che la tiene legata a lui. Una sorta di buco magnetico il cui centro continua a fissare senza posa. La schiena appoggia sulla nebulosa bianca, ma i suoi piedi, lo sa, sono già intinti nel nero.

Il camioncino si ferma a pochi metri da loro. Ne scendono due uomini di origine sudamericana, in abiti di lavoro. Fanno un cenno con la mano. Mario si sposta verso di loro, febbrile. Lei rimane. Aspetta. Gli uomini vanno sul retro del furgone e aprono il portellone. Armeggiano tirando fuori una scatola di cartone. Con delicatezza la trasportano verso il laghetto. Mario li precede. Fa poggiare il cartone accanto ad una piccola vasca e fa segno di aprire. Gli addetti aprono l’imballaggio e tirano fuori il contenuto: nel grosso sacchetto di plastica rigonfio d’acqua, ecco la karashigoi.

«Piano» sussurra Mario. «Fate piano.»

La poggiano accanto alla vasca. La carpa si agitata nella sua piccola camera iperbarica. Ha un arancio abbagliante. Mario ne è stordito. Prende il sacchetto e lo mette in vasca. Deve aspettare una mezz’ora per far acclimatare il pesce: non deve subire altri stress di ambientamento. Quando l’acqua nel involucro sarà alla stessa temperatura di quella della vasca potrà liberare la Koi. Solo in seguito, la traferirà nello stagno a far compagnia alle altre.

Lei lo guarda prendersi cura della sua nuova creatura; osserva i gesti precisi, calcolati e l’emozione che sa piegarsi alla volontà dell’accuratezza.  Se deve pensare a una parola, per quello stagno, per le Koi, per la cosa, lei pensa a devozione. È tutto è parte del disegno a completamento dell’opera.

«Non è bellissima?».

«Sì. Lo è» risponde lei.

«Ho fatto un ottimo affare.»

Sorride. L’energia lo scuote. Si sente vibrare dentro. Quel movimento arriva fino a lei: è il respiro dello stagno che li avvolge e li meraviglia. Si abbracciano. Le bacia il collo, poi le labbra e le mani accarezzano. L’eccitazione è muschio e pino; è sciabordio che sbatte contro le curve delle cosce. Si stendono. Lei ha nelle narici fili d’erba; nella bocca limo e ferro. La pancia di lei sbatte contro la terra fresca.

“Sei guarita» le dice Mario mentre accompagna con l’indice le cicatrici rosse. Ne ha sette sulla schiena. Sette lunghe strisce vivide e gonfie. Lei ora ha la pelle d’oca e si volta a guardarlo. Si baciano.

Il sole è quasi al tramonto. I colori del cielo, insieme alle Koi danno fuoco allo specchio d’acqua. È giunto il tempo per la carpa di essere liberata nella prigione. Lui si rialza. Prende un retino e si avvicina alla vasca; pesca senza difficoltà la karashigoi e la trasferisce nello stagno. Questa, con uno slancio elegante raggiunge le altre. Le sembra di aver visto un lampo di felicità in quell’occhio tondo, un sorriso appena accennato tra i lunghi baffi. Una condizione di miseria salutata con benevolenza, quasi fosse la miglior sorte capitata. L’istinto di conservazione fa preferire il dolore alla morte. E il dolore, ti rende essere senziente. Il dolore è un tempio.

«Vieni. Andiamo a casa» la invita Mario. Ha la febbre, gli occhi sono lucidi. Brillano acquosi. A lei pare di vederci tutto lo stagno. Comprende che quella giornata deve essere memorabile. Lui l’ha così desiderata. A lei si chiude il respiro; nelle viscere ha mollezza. Sente umido tra le gambe. Accetta. Non ha paura. Le cosce sono nel nero e il nero scolora l’angoscia, anestetizza l’istinto. Il nero è l’amore. Un amore che tutto può attraversare.

Lui le sorride, le tende la mano. Lei la prende. Lo segue. Una volta dentro, vanno dritti alla stanza. Nessuno ha avuto esitazioni.  Non parlano. Si annusano. Nell’odore di Mario c’è la cosa. Si sente netto e cresce. Sulla pelle di lei c’è sudore nero.

C’è penombra e puzza di muffa.

«Spogliati.» Non c’è comando. È invito. Lei, accoglie. Lui intanto versa un po’ di liquore: ne beve un po’. Le porge il resto. Rum dolce. Beve, lo sente bruciare ma chiede ancora. Riempie di nuovo il bicchiere. Quando lo prende, lui le sfiora i capelli con la mano. Vede amore. Solo amore nei pozzi neri che sono ora i suoi occhi. Lei ci si immerge.

Lui le lega i polsi e le caviglie. Sente il freddo del muro contro la pelle. Quando riceve la prima frustata, la testa le sbatte contro il cemento. Il corpo è scivolato nel buco. Il nero sale. Prende lo stomaco.

Non c’è più muffa, ma solo dolciastro nell’aria. Conta dieci e dopo, no. Dopo il nero si prende i suoi occhi.

Lui l’ha slegata, l’ha portata di peso nel bagno e poi l’ha lavata. Le ha messo un balsamo. Lei ha lasciato fare, una bambola con un buco nel centro. E fasce sulla schiena. L’ha portata a letto, l’ha baciata. Ha ripulito il bagno con la candeggina. Ha bevuto ancora, poi si è addormentato sazio: si è preso cura delle sue creatura.

Si è svegliato ed è solo. La cerca in casa. Quando la trova, lei giace a pancia in giù; i capelli le galleggiano intorno alla testa a mo’ di corona. Il corpo pallido, già un po’ gonfio, trasportato dal movimento lieve delle acque. Le carpe stanno cibandosi delle sue carni. Lui pensa che è bellissima, lì, nel mezzo del suo universo. Regina delle Koi. Con la schiena rosso vivida e la pancia liscia, bianco uova. Una sostanza che ha trovato l’esatta forma corrispondente.

1 Fusillo M., «Esperienze del limite, Il sublime e la sua ricezione moderna», in Sul sublime, Fondazione Valla/Mondadori, 2021.

Accostamento a Celati

Accostamento a Celati

di Stefania Pietroforte

[Stefania Pietroforte è una studiosa di filosofia italiana del Novecento. È legata al magistero di Gennaro Sasso Ha pubblicato alcuni volumi e numerosi articoli su diverse riviste filosofiche. Ha dato vita, insieme ad altri, alla rivista “Filosofia italiana”, che contribuisce a redigere da oltre quindici anni. Di recente ha sviluppato interesse per la scrittura letteraria e, per sua istruzione, ha partecipato ad alcuni corsi della Bottega di narrazione con Giulio Mozzi e Fiammetta Palpati. In questo breve scritto c’è il suo incontro con l’opera e la figura di Gianni Celati, verso le quali i nostri laboratori sul paesaggio sono debitori. Spesso, quando ci ritroviamo di persona o in un’aula virtuale, abbiamo sul volto quell’espressione un po’ beota – ingenua e disincantata, ispirata e ironica, divertita e compunta – che hanno i parenti e gli amici che Gianni Celati condusse e seguì su un pullman di colore azzurro, lungo la Strada provinciale delle Anime, nel 1991: quella di viaggiatori in casa propria. fp]

Ho conosciuto Gianni Celati, come autore, alla Bottega di narrazione. Giulio Mozzi mi consigliò di leggerlo per capire un po’ meglio la mia (e qualsiasi) scrittura. Non me ne innamorai, anzi. Le avventure di Guizzardi  mi sembrarono gravate di ideologia, la cosa che meno sopportavo. Lessi con più curiosità e piacere i racconti. Quando arrivai a Condizioni di luce sulla via Emilia, mi trovai davanti un capolavoro in venti pagine, fatto di minimi termini e di tanta metafisica e fascinazione letteraria da riuscire a sfamare chiunque. Con questo, non avevo appreso molto di più sulla mia scrittura, se non per differenza. Però avevo osservato il percorso fatto da quello scrittore un po’ strampalato, lo avevo trovato accidentato e difficile e questo non mi rassicurava sul cammino che mi stava davanti. L’incontro con Celati però non doveva finire qui. La Bottega di narrazione lo teneva davvero in speciale considerazione.

Toccò stavolta a Fiammetta Palpati di riaccostarmelo di nuovo. Nel corso il «Paesaggio del romanzo» sentii parlare di Luigi Ghirri, il grande fotografo italiano che negli anni  ’60 scoprì che si poteva guardare il paesaggio con gli occhi disincantati di un particolare tipo di modernità. Erano lenti, quelle di Ghirri, che dicevano la nudità di ciò che è spoglio, la trascuratezza dell’abbandonato, la desolazione della fabbrica svuotata e lo facevano senza vergogna, senza nostalgia, senza commiserazione. Il fotografo frequentava immagini quotidiane, ma le accompagnava con un’armonia sommessa che, da sola, sollevava quei frammenti del mondo appena un po’ al di sopra del piano d’appoggio. E con ciò li salvava. Per pochi istanti. Per uno sguardo. Ma li salvava. Dalla morte. Quei frammenti erano pure la materia dei film di Celati. Strada provinciale delle anime, scelto da Fiammetta, lo vidi coi compagni di corso al Cineforum del «Paesaggio del romanzo». Scherzammo, cogliendo giustamente quanto di buffo, di irrazionale, emergeva dalla storia. Eppure lì, con quelle immagini spezzettate, indeterminate, insensate, lo scrittore, lavorando come regista, era riuscito a mostrare più immediatamente il suo mondo: quello emotivo, fatto dei luoghi cari della pianura padana, e quello razionale, fatto di frammenti sparsi della realtà, che così gli sembrava dovesse davvero essere. Il frammento era la tessera che univa a colpo d’occhio Celati a Ghirri. Ma, insieme a esso, anche tutto quello che fa del frammento un frammento,  e quel fiume di cose (molteplici cose ciascuna racchiusa nel suo significato) che il confine del frammento trascina con sé. Una realtà scomposta e non ricucibile, perché tale da sempre, che proprio in queste tessere che non si riallacciano ha la sua cifra distintiva e il suo senso. Il senso della gita in pullman sulla strada provinciale delle anime.

È solo dopo questo secondo accostamento a Celati che ho cominciato a capire qualcosa di quello che lui aveva fatto. Anche se razionalmente c’ero già arrivata con la lettura consigliata da Giulio, è stato soltanto dopo aver visto Strada provinciale delle anime che Celati ha toccato le corde giuste del mio cuore, voglio dire di quell’impasto fenomenale di immaginazione, sentimento, razionalità che raccoglie il meglio della nostra vita e ci fa essere quel che siamo. Solo allora ho visto quanto forte fosse in lui il bisogno di esplorare, di tentare il nuovo, di andare alla ricerca, seguendo però sempre più il filo dell’espressione personale che era insieme scoperta del mondo, mondo umano e mondo di cose pareggiati nel loro valore e mai l’uno prevalente sull’altro. Solo allora mi è sembrato di intuire come deve aver cercato di pensare il mestiere di scrittore. Prima potevo ancora pensarlo come l’autore del bellissimo Condizioni di luce sulla via Emilia. Sarebbe stato ben poco. Forse Ghirri e le sue fotografie, immagini mai scolpite e sempre leggermente, molto leggermente, vibranti di partecipazione alle sorti del mondo, avevano suscitato in Celati un pathos, altrettanto leggero e trattenuto, ma comunque un sentimento di accomunamento al mondo, che trapela anche dai comici personaggi del film, risibili ma umani.

So bene che di Celati si possono dire tante altre e più importanti cose, e si diranno senz’altro da chi saprà farlo adeguatamente e con diversa cognizione. So che Gianni Celati è stato tanto di più di quello che si trova in questa paginetta. Per me, però, è indissolubilmente legato alla Bottega di narrazione, a Giulio Mozzi e Fiammetta Palpati e all’esperienza di scrittura con loro, che ho imparato a riconoscere come un’esperienza importante di conoscenza e di vita.

Pillole di paesaggio/9 – Descrizione e immagine

Pillole di paesaggio/9 – Descrizione e immagine

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. Questa è la volta di «descrizione» e «immagine». fp]

Vi ricordate la vigna di Renzo? Siamo nel capitolo xxxiii dei «Promessi sposi» (quello che comincia con don Rodrigo che si scopre ammalato di peste); Renzo torna al paese, dà un’occhiata alla propria casa, e scopre che la sua piccola vigna è diventata una giungla:

«Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. […] Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi insomma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. […] Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle loro foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli; là una zucca selvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avvitacchiata ai nuovi tralci d’una vite…»

Nell’edizione originale del romanzo, quella del 1840, accanto a questa pagina sta l’incisione di Francesco Gonin. L’immagine fiancheggia la descrizione, la descrizione fiancheggia l’immagine. Lo scopo di descrizione e di immagine però è diverso. La descrizione vuole far sì che il lettore si avvicini all’oggetto e si soffermi, l’immagine glielo mette tutto sott’occhio; la descrizione è analitica, l’immagine è sintetica; la descrizione rallenta e quasi ferma il tempo della narrazione, l’immagine è un lampo.

I pericoli della descrizione li sappiamo tutti: già il poeta latino Orazio invitava a non rivestire di troppo virtuosismo lessicale e stilistico, di troppi panni fastosi e colorati (magari di costosissima porpora) ciò che il lettore deve vedere: paradossalmente certe descrizioni, tanto più vorrebbero esaurire l’immagine, tanto più rischiano di celarla alla vista.

Raccontare un paesaggio non significa riversare sul lettore (che è spesso abituato, lo sappiamo, a «saltare le descrizioni») miriadi di minimi dettagli. Significa mettergli sotto gli occhi i dettagli necessari affinché nella sua mente si formi, non istantaneamente ma neanche troppo lentamente, un’immagine: che poi resterà impressa nella memoria.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/8 – Simboli e oggetti correlati

Pillole di paesaggio/8 – Simboli e oggetti correlati

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. Questa è la volta di «simbolo» e «oggetto correlato». fp]

Nell’antica Grecia due persone che stringevano un patto spezzavano un oggetto di terracotta. Ciascuno conservava una delle parti, inevitabilmente diseguali ma combacianti lungo la linea di frattura, a riprova dell’esistenza dell’accordo. Questa consuetudine, e l’oggetto che veniva spezzato, sono all’origine della parola simbolo: due che fanno uno. Uno fatto da due. Basta fare una passeggiata per incappare in oggetti (ma anche animali, luoghi, gesti, colori, eccetera) che richiamano idee, valori, molto distanti (e anche per nulla somiglianti).

«Un caminetto», si dice, «fa sempre famiglia». In effetti il caminetto ― un fuoco acceso in un ambiente domestico, atto a scaldare, cuocere, illuminare ―  «mette assieme» oltre alla concretezza e alla funzionalità, la protezione che deriva delle mura domestiche, del calore, del cibo; e dunque l’idea di famiglia e, per estensione, di quella di amore come appartenenza.  Il caminetto è dunque un «simbolo» (anche amministrativo: una volta le tasse non erano addebitate alle persone, ma ai «focolari»). Cogliamo il valore simbolico del focolare poiché l’esperienza che ne è alla base fa parte della nostra civiltà, è un patrimonio comune, se non universale.

Ma ci sono simboli, diciamo così, «condivisi», e simboli «privati». Può capitarci di stabilire, in maniera spontanea o volontaria, delle relazioni precise tra oggetti, luoghi, eventi ― e contenuti personali: stati d’animo, sentimenti, reminiscenze. Lo facciamo fin da bambini: pensate a Linus che non sa staccarsi dalla sua coperta: che è calore, protezione, casa, mamma.

Certi pezzi del mondo esterno diventano così simboli di certi altri pezzi del mondo interno, quello che solo è nostro. E può accadere che le storie si affaccino alla nostra coscienza attraverso immagini di oggetti, luoghi, paesaggi, che noi crediamo siano davvero certi oggetti, luoghi, paesaggi, ma in realtà sono  portatori, quasi messaggeri del nostro mondo interiore. Le immagini, si dice, sono «correlativi oggettivi» di «cose» che stanno dentro di noi.

 Scoprire come creiamo le immagini ― cioè come stabiliamo correlazioni tra contenuti interni e oggetti esterni ― equivale a scoprire come funziona la nostra creatività.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.

Pillole di paesaggio/7 – Atmosfera e tono

Pillole di paesaggio/7 – Atmosfera e tono

di Fiammetta Palpati

[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. Questa è la volta di «atmosfera» e «tono». fp]

Vi siete mai chiesti il colore, o il suono, la tonalità della vostra storia?

Per esempio, se state scrivendo un giallo, un rosa, siete orientati a un genere; già se pensate al noir state aggiungendo al genere qualcosa di più che è l’atmosfera. Una sorta di aura scura che avvolge la storia e che ne influenza lo sviluppo e gli esiti, o ne è influenzata. Ciò che determina l’atmosfera sono le condizioni di luce, di umidità, di temperatura, di pressione, di vento. Cosa hanno a che fare questi fattori ambientali con la scrittura? Ecco, questi elementi sono nel set, nell’ambientazione – o più propriamente nel modo in cui i personaggi vedono, sentono, il mondo che li circonda. Anche l’umore, lo stato d’animo, un sentimento fanno parte dell’atmosfera. Ma sono anche nella scrittura.

Esiste un certo tipo di commedia – soprattutto americana – definita brillante, dove la vicenda non solo è trattata con leggerezza e umorismo come ci si aspetta dal genere, ma anche con una “finitura” che riflette la luce. Questo è piuttosto intuibile nei film dove si può lavorare sulla fotografia (anche se coinvolge una serie vasta di scelte: dagli ambienti, agli abiti, ai filtri) sui ruoli e il carattere dei personaggi (nella tradizione l’attore brillante è un giovane che interpreta un ruolo vivace, spiritoso), sui dialoghi che sono appunto arguti, divertenti, e dal ritmo incalzante. Ma un racconto come fa a essere brillante? A riflettere luce vivida, cangiante? A essere limpido, a imporsi all’attenzione?

La propria immaginazione va letta come una fotografia, un brano musicale, una pietanza. La propria lingua deve poter rispecchiare anche la luce – netta, tagliente e chiusa quando vuole brillare – morbida, allungata, aperta quando vuole avvolgere, sfumare.

Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.