di Loretta Martignon
[Lo spazio è indefinito e non limitato, la mappa è finita e i suoi limiti sono ben tracciati (non fosse altro che dal bordo del foglio o dal ritaglio dell’immagine). La terra, con i suoi elementi materiali, è assai complicata, stratificata, affastellata: la mappa la dis-piega, la semplifica. Gli elementi sono indistinguibili, la mappa li riordina: li classifica, li isola (o viceversa), li evidenzia (alla bisogna annette una legenda). Questo riassetto è frutto di una severa operazione concettuale che impariamo a fare. A furia di mappare, cioè rappresentare uno spazio (fisico o mentale) attraverso segni e icone, l’operazione ci diventa così familiare che la mappa in sé scompare ai nostri occhi: vediamo, o cerchiamo di vedere, soprattutto quella porzione di spazio che pretende di rappresentare o di spiegare. O, al contrario, vediamo soltanto la mappa, la rappresentazione diventa lo spazio. La terra, come sostiene il geografo Franco Farinelli, diventa la carta geografica; la mappa la sostituisce. Inevitabilmente diamo fiducia alla mappa, come se il solo atto di mappare, il prendersi la briga di fare il rilievo, garantisse aderenza, verità, autenticità. Perdiamo di vista che una mappatura ci offre, e ci impone, un modello di mondo. E finanche, per entrare nello spirito del racconto che segue, una colonizzazione del mondo. Il tono amichevole di Loretta Martignon, che in questo racconto ci ricorda quei loquaci compagni di viaggio che nel parlare tra sé ogni tanto ci rivolgono la parola, ci porta invece, sorprendentemente, nel cuore drammatico dell’identità australiana dove i rassicuranti colori sgargianti della mappa e gli impronunciabili toponimi aborigeni testimoniano e raccontano un processo di colonizzazione ancora apertissimo.
Con il testo «Melbourne a colori» di Loretta Martignon inauguriamo una breve rubrica dal titolo «Una mappa è un racconto». Loretta Martignon è italiana e vive a Merlbourne da vent’anni. Nel gruppo di lavoro oltre a essere stata una sorta di agente all’Avana, ha messo in crisi la nostra idea di città da ex cittadini del Sacro Romano Impero. Buona lettura. Fiammetta Palpati]
Da piccola avevo un mappamondo, di quelli di plastica con l’interruttore, che diventano una lampada. Gli stati erano colorati e creavano arcobaleni politici in ogni continente.
Mi divertivo a farlo girare velocemente dandoci una manata a occhi chiusi per poi fermarlo di colpo con un dito per vedere dove capitavo. Asia, America, Europa, qualche volta l’Africa sahariana, e tanti buchi nell’acqua azzurra degli oceani e dei mari. Forse, ma non ricordo, qualche volta devo aver cercato di muovere il dito verso il basso, per esplorare anche l’emisfero sud, e chissà che non sia capitata su Melbourne.
Il cielo è grigio in questa mattina di maggio. Una pioggerellina sottile macchia i marciapiedi e l’asfalto, ma non fa aprire gli ombrelli o aumentare il passo, già frettoloso, alle persone che si aggirano intorno alla stazione.
Mi siedo vicino al finestrino, sul lato sinistro, per seguire il senso di marcia del treno. Tre anni fa c’era molta più gente a quest’ora del mattino, lo scompartimento quasi si riempiva già dalla prima stazione, ma dopo la pandemia non tutti sono tornati alle vecchie abitudini. Per ora siamo solo io e una ragazza asiatica seduta dalla parte opposta, anche lei vicino al finestrino. Sta mangiando. Dà dei piccoli morsi ad una potato cake, gialla e fritta, che spunta da un sacchetto di carta macchiato d’olio.
Fritto. Per colazione, alle sette e mezza di mattina. Mah.
La città di Frankston è lì, oltre il vetro. Scivola via lentamente, man mano che il treno lascia la stazione. Sfilano le palme allineate al centro del viale, il garage del gommista vicino alla rampa del parcheggio del centro commerciale, la rotonda dove c’è la stazione della polizia con il tribunale a fianco. Poi arrivano, di fretta, i capannoni della zona commerciale e le concessionarie d’auto.
Il treno prende ancora un po’ di velocità, si arrampica sul nuovo ponte sopra l’ingresso dell’autostrada e poi inizia a rallentare per fare la stazione di Kananook. Che nome strano. Aborigeno, di sicuro. Appare in giallo sulla striscia luminosa sopra le porte che separano gli scompartimenti.
Lo ritrovo nella mappa affissa alla parete sopra il sedile, per ora ancora vuoto, che ho di fronte.
La conosco, questa immagine. L’avrò guardata, studiata, esplorata un’infinità di volte in tutti questi anni di avanti e indietro per andare in ufficio.
Eppure, l’occhio curioso mi va lì: indugia, ricerca, percorre, scopre.
Mi piace questa mappa dei treni del Victoria: è colorata. Mi fa pensare a quei libri per bambini, quelli che illustrano il corpo umano sovrapponendo le pagine trasparenti a una sagoma disegnata, mostrando ora lo scheletro, ora l’apparato circolatorio e così via. Le linee del treno spiccano su uno sfondo bianco che distingue in modo netto l’area metropolitana di Melbourne da quella grigio-azzurro delle campagne. Solo le linee regionali, viola scuro, si insinuano oltre il bianco e si piegano come gomiti slogati, spostando i paesi e le città dalla loro collocazione logica per farli stare dentro i limiti del foglio adesivo.
Al centro, le linee colorate dei treni aggirano il CBD, il central business district, quella griglia di strade, ordinate e perpendicolari, che è il quartiere di Melbourne. Da questo rettangolo, vuoto e bianco nella mappa, i colori ferroviari si aprono a raggiera.
Frankston è l’ultima stazione metropolitana sulla linea verde. Parte dal basso, in fondo all’immagine, costeggia l’azzurro della baia, sfiora il rettangolo del City Loop, si arrampica fino a North Melbourne e Footscray, poi ridiscende: un ramo finisce a Williamstown sul mare, e l’altro si insinua nelle campagne di Werribee.
L’origine dei nomi dei quartieri sono tutti mescolati.
Frankston, fondata da un misterioso signor Frank da cui sembra abbia preso il nome, è sulla stessa linea della cittadina di Werribee, con quel nome aborigeno rubato al fiume che la attraversa.
Controllo di nuovo la mappa. Colore per colore.
Sulla linea rosa, quella più corta, quartieri come Sandringham, Hampton, Brighton, così british, sono sulla stessa linea di Prahran, un nome che doveva essere aborigeno, ma che in realtà nasconde un errore ortografico dell’amministrazione locale e chissà, adesso così storpiato, che cosa vorrà mai dire.
Il suono ritmico annuncia l’apertura delle porte, distolgo lo sguardo dalla mappa per godermi la vista dalla stazione sopraelevata di Carrum. Dal mio finestrino si distingue il giallo spento della spiaggia che si allunga in un ampio arco sul mare e arriva fino ai grattacieli lontani della city, grigi come il cielo che riflettono.
Un uomo sulla quarantina si siede sul sedile di fronte al mio, apre il portatile sopra la valigetta che ha sulle ginocchia e si mette a battere veloce sui tasti.
Lo scompartimento si sta riempiendo. Il treno ha già raccolto maglioni giallo evidenziatore dei carpentieri con gli scarponi infangati, camicette bianche e inamidate delle segretarie, i blazer con lo stemma sul taschino degli studenti delle scuole private e le felpe grigie dei giovani universitari assonnati e spettinati.
Riprendo la mia esplorazione ferroviaria. Allineati lungo la linea blu ci sono i britannici Richmond, Howthorn, Canterbury, ma anche Kooyong, Tooronga e Nunawading. Nomi dati dai clan della Kulin Nation aborigena, parole dai significati misteriosi e incerti, dai suoni difficili che si attaccano alla lingua e si fatica a srotolarli.
La linea rossa si biforca: sotto va verso Hurstbridge, dal nome inglese che combina i termini boschetto e ponte; in alto va a Mernda, con quella enne aborigena così difficile da pronunciare.
La linea gialla è un forcone. E nessuno dei tre denti passa vicino all’aeroporto internazionale di Melbourne. Se ne stanno bene alla larga, lo evitano come se cielo e terra, per qualche motivo, non si dovessero toccare.
Ma anche qui nomi di quartieri come Flemington o Batman – in onore di John Batman padre fondatore delle colonie britanniche non del super eroe dei fumetti – fanno parte delle stesse traiettorie su cui si trova Coolaroo che forse, ma chi sa se è vero, deriva da una parola aborigena che dovrebbe significare serpente marrone.
Alla stazione di Caulfield il treno si svuota di studenti universitari e si riempie ancora di tutti quelli che, come me, vanno a popolare i grattacieli della city, brulicando ogni giorno come formiche, riempiendone i piani fino in alto per abbandonandoli di fretta al primo imbrunire.
La ragazza asiatica non c’è più, al suo posto si è seduto un uomo indiano, si capisce dal turbante che indossa. Le sopracciglia aggrottate creano una ruga in mezzo alla fronte mentre legge il fascicolo che tiene in mano. Al suo fianco c’è una ragazza, sulla ventina: ha un tatuaggio scuro che le spunta dal colletto, le riempie il collo e le sparisce dietro l’orecchio. Ha gli occhi chiusi, ma si capisce che non sta dormendo.
Il treno riprende la sua corsa, puntando dritto verso il centro, dove tutte le linee ferroviarie si incontrano e i colori si intersecano ma non si mescolano.
Come noi, qui, in questo scompartimento, tutti diretti verso la stessa destinazione, ognuno con la sua etnia stampata in faccia, o alla pronuncia e all’inglese strano. Viaggiamo su queste linee disegnate su un foglio trasparente, che si sovrappone alla sagoma, ma non vi appartiene.
Siamo arrivati tutti tardi, dopo che la terra era stata già rubata: siamo solo ospiti, non graditi, in questa città.
Il display luminoso annuncia Flinders Street, la mia stazione. Appena mi alzo uno scossone mi sbilancia, per poco non finisco sulle ginocchia dell’uomo che mi sta di fronte. Mi salvo dall’imbarazzo toccando con due dita la parete sopra il suo sedile, proprio lì, sulla mappa, e riguadagno l’equilibrio.
Mi avvicino alle porte per scendere, e la ritrovo. Con le sue linee ordinate, i puntini scuri delle stazioni, la griglia di riferimento e la lunga legenda dei toponimi sul fondo. È tutto scritto lì, disegnato, rappresentato. È rassicurante, come solo le mappe lo possono essere. Basta un’occhiata per non sentirsi più persi e poter ritrovare la direzione. O per illudersi di far parte di un luogo, anche se lontano e sconosciuto solo perché, magari, lo si può toccare con un dito.