di Giulio Mozzi
La striscia (anzi, il quadrato) di Andrea Pazienza che vedete qui sopra mi ha sempre commosso. Che cosa possono insegnare, gli adulti ai bambini, se non la stella, il fiore, la notte? La stella è l’infinità del mondo, dell’universo, che ci interroga e ci spaventa, ci affascina e ci fa immaginare. Il fiore è la vita, la riproduzione (il fiore è pur sempre un organo genitale), la ciclicità interminabile delle molecole: un’altra infinità, che ugualmente ci interroga e ci spaventa, ci affascina e ci fa immaginare. La notte è morte, altra infinità, la più misteriosa di tutte, che pure ci interroga e ci spaventa, ci affascina e ci fa immaginare.
C’è altro da insegnare? No. C’è una quantità di cose pratiche, ma la loro importanza è risibile al confronto della stella, del fiore, della notte.
E’ per questo che gli antichi, scrutando le stelle (e ne vedevano molte più di noi, soprattutto quelli che vivevano vicino a zone desertiche, o i marinai), un po’ per esigenze pratiche di memorizzazione (vedere una figura in un gruppo di oggetti è un modo per ricordarli e riconoscerli) e molto, credo, per dare un senso al cielo, s’immaginarono le costellazioni, o più esattamente s’immaginarono di vedere raffigurati in esse personaggi e oggetti della loro mitologia – noi la chiamiamo “mitologia”, e intendiamo che erano tutte balle, ma così non era per chi se l’inventò, per chi vedeva gli dèi nei canneti e nel mare, nelle montagne e nel sole.
Come gli astronauti statunitensi, appena scesi sulla Luna, provvedettero a impiantare la bandiera a stelle e strisce,

così, qualche secolo prima, un certo Julius Schiller (1580-1627), cartografo e ovviamente gesuita, resosi conto che il cielo – il cielo! al quale tutti alzano gli occhi quando pensano a Dio –

era colonizzato dall’immaginario mitologico grecolatino, o giù di lì, decise di porre rimedio alla faccenda. Era un problema serio: un problema di potere (roba appunto da gesuiti, insomma). Si mise dunque all’opera.
E riuscì a vedere stampato, nel 1627, poco prima di decedere contento, il suo Coelum Stellatum Christianum, un atlante stellare disegnato – sotto appunto la direzione di Schiller – da Johann Matthias Kager e inciso da Lucas Kilian. Tra i collaboratori, altri astronomi gestuiti: Johann Baptist Cysat, Paolo Guldino e Matthäus Rader.
In questo atlante, come avrete capito, le costellazioni sono interpretate in senso cristiano: al posto degli dèi ed eroi dell’antica Grecia Schiller e i suoi compari presentarono santi, madonne, arche di Noè e quant’altro.
Se volete sfogliare altre pagine, consultate il sito Atlas Coelestis, curato da Felice Stoppa, e precisamente questa pagina qui. O comperatevi il bellissimo libro, sempre di Felice Stoppa, Atlas coelestis. Il cielo stellato nella scienza e nell’arte, ed. Salviati & Sagredo. Avrete già capito che io, Felice Stoppa e quelli come lui, li amo alla follia.
Ciò detto: la prossima volta che vi capiterà di uscire e riveder le stelle, provate a pensarci. Guardate in su. Se quello sciorinamento di puntini bianchi non vi dice nulla, forse siete persone libere – nessun potere ha imposto nomi al vostro cielo. O forse siete persone povere, perché un potere ha imposto nomi al vostro cielo, e voi nemmeno li sapete.
Viviamo sempre immersi negli immaginari. E, sia chiaro, un paesaggio che appaia sotto la Chioma di Berenice è tutt’altra cosa da un paesaggio che appaia sotto la Madonna dei Sette Dolori. Per dire.
(Ultima fantasia. Nel romanzone Infinite Jest del povero David Foster Wallace gli anni non sono più numerati dalla nascita di Cristo, bensì sponsorizzati. C’è l’Anno del Pannolone per Adulti Depend, eccetera. E io mi sono immaginato di guardar fuori dalla finestra, adesso che finisco di scrivere ed è sera tardi, e intravvedere la costellazione del Toblerone).
* * *