Testo con paesaggio / Settimo esempio: il taccuino di viaggio

Testo con paesaggio / Settimo esempio: il taccuino di viaggio

di Fiammetta Palpati

[Un paesaggio – o un’idea di paesaggio – accomuna un annuncio immobiliare a una poesia di Marianne Moore. Nel mezzo una scelta semiseria, in alcuni casi provocatoria, di testi molto vari per scopo, struttura e funzione: un manuale di giardinaggio e una delibera comunale, un racconto e una guida turistica, una canzone pop e un saggio filosofico, un libro di storia e un taccuino di viaggio.
Quello che vi propongo in questa rubrica è un tentativo giocoso di stressare un soggetto che nonostante la sua giovane età, o in virtù di essa, dimostra un certo appeal sia per la produzione artistica che per la riflessione teorica. Dieci esempi disparati ma accomunati dal fatto di raccontare direttamente o indirettamente, incidentalmente o con intenzione, uno dei luoghi comuni più affascinanti. Proseguiamo, dunque, ed entriamo ufficialmente nella letteratura, con un taccuino di viaggio. fp].

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«Quando io cammino, cammina un bisonte. Quando mi fermo, si riposa una montagna. (…) fuori dal freddo le prime mucche; mi commuove. Intorno al letame, che fuma, una gettata di cemento e due bambine che vanno sugli schettini. Un gatto nero nero. Due italiani che spingono insieme una ruota.
Questo odore acuto dei campi! Corvi che volano verso oriente e dietro di loro il sole ormai basso. Campi grevi e umidi, boschi, diversa gente a piedi. A un cane lupo si vede il fiato davanti la bocca. Per Alling cinque chilometri. Per la prima volta paura delle automobili. Su quel campo hanno bruciato giornali illustrati. Suoni, come di campane dai campanili. Nebbia che scende, una foschia. Mi blocco tra i campi. Giovani contadini in moto passano con strepito e si allontanano. (…) Un guanto intriso di pioggia nel campo, e nei solchi dei trattori è rimasta l’acqua fredda. Gli adolescenti sulla moto vanno all’unisono alla morte. Mi vengono in mente le rape non raccolte, ma per dio, giuro, qui intorno non ci sono rape non raccolte. (…) C’è un bosco nero e fermo. (…) Placide figure con cani lungo il bosco. (…) Il prugnolo mi balza davanti, intendo come parola: la parola prugnolo. E invece c’è un cerchione di bicicletta, ma senza gomma, e tutto dipinto a cuori rossi. (…) Mi passa accanto un albergo, albergo al bosco, grande come una caserma. E c’è un cane, un mostro, un vitello. (…) Un campo di mais, non raccolto, d’inverno, cinereo che crepita, eppure non c’è vento. C’è un campo e si chiama morte. (…) Arriva una bicicletta e a ogni giro completo il pedale urta contro il carter. I guard rail mi accompagnano e sopra di me corre l’elettricità. Questa collina però non è proprio invitante. Quasi sotto di me c’è un paese nella propria luce. (…) Fuori Alling un pantano, suppongo capanne di torba. In una siepe snido dei merli, una schiera spaventata, che vola via nell’oscurità. La curiosità mi conduce al posto giusto, una villa da fine settimana, giardino chiuso, ponticello sul laghetto; casa sigillata. Io seguo la via diretta … prima si fa saltare una persiana, poi s’infrange un vetro, ed eccoti dentro. (…) sul tavolo una tovaglia con un motivo moderno dei primi anni cinquanta. Sulla tovaglia delle parole incrociate, fatte per un decimo al massimo, con fatica, e gli scarabocchi sui margini rivelano che si era alla fine delle risorse. Si è risolto copricapo: cappello. Spumante: champagne. Parlare a distanza: telefono. Io risolvo il resto e lascio tutto sul tavolo come ricordo. (…) Dopo ancora per un poco mi occupa la mente una donna che andava per la strada del paese, nel buio notturno, con una brocca di latte in mano.»
W. Herzog, Sentieri nel ghiaccio, Guanda, Parma, 1980, pp. 11-16. (Wien, 1978)

Il viaggio è tante cose, naturalmente; una di queste di certo l’attraversamento di paesaggi. Di paesi e paesaggi.
Con il taccuino di viaggio – d’autore, qual è quello del cineasta e scrittore Werner Herzog da cui è estratto il brano in apertura proposto per la settima tappa del nostro tour – ci allontaniamo a passo deciso dagli scopi funzionali della prosa e ci avviciniamo a quelli più creativi (o espressivi, dal momento che un certo grado di creatività c’è anche, come abbiamo visto, nella redazione di un annuncio immobiliare). Entriamo nel territorio dell’arte attraverso la letteratura o narrativa di viaggio, un genere che può considerarsi di transizione da quelli intenzionalmente documentativi a quelli che invece si dichiarano d’invenzione. Ed è un ingresso piuttosto naturale poiché le prime apparizioni paesaggistiche in senso stretto sono senz’altro nella letteratura di viaggio.

La tipologia del taccuino, rispetto ad altri possibili modi di raccontare il viaggio, come la cronaca, il reportage, il romanzo tout court – o il diario che al taccuino è molto affine – proponendosi come testo che nasce insieme al, e durante lo spostamento dà l’idea (illusoria) di essere un resoconto oggettivo di quel che si vede. Nel brano appena letto si ha quasi l’impressione di trovarsi a leggere un elenco orizzontale di annotazioni, più che altro a beneficio della memoria dell’estensore e destinate a una successiva rielaborazione. È come se volesse portare il lettore all’interno di un processo di creazione, dicendogli: sei davanti alla materia grezza. Chi scrive, è chi guarda. Chi guarda è chi viaggia. Quel che leggi non è un quaderno del viaggio, ma proprio quel quaderno, riempito in piedi magari, o al tavolino di un bar. E può darsi, naturalmente. Ma può anche avvenire che ci si trovi di fronte a una sofisticata rielaborazione dell’esperienza, a posteriori. O, addirittura, a un’immaginazione del viaggio ex novo. Faccio un esempio: tra i taccuini di viaggio più famosi del Novecento ci sono quelli di Bruce Chatwin. Celebri e amati al punto da creare degli immaginari dei luoghi, o da indurre qualcuno a intraprendere il viaggio cercando di seguire le orme del loro autore. Ebbene, mi è capitato di ascoltare recentemente Antonio Politano, fotografo, giornalista e curatore del Festival della Letteratura di viaggio a proposito del suo reportage in Patagonia costruito, passo dopo passo, tappa dopo tappa, sulle tracce di In Patagonia di Chatwin, appunto. L’affermazione suonava più o meno (vado a memoria): “mi sono reso conto che ha raccontato un sacco di sciocchezze”. In buona sostanza nei taccuini di viaggio di Bruce Chatwin ci sarebbe una certa dose di invenzione o, se vogliamo, il grado di rielaborazione narrativa è così alto da creare incertezze alla, scusate l’espressione, prova di realtà. Questo naturalmente non toglie alcun valore all’opera di Chatwin; solo che non può essere usata come guida affidabile. Dico questo per avvalorare l’affermazione fatta sopra: l’impressione di realismo offerta dal taccuino è, per l’appunto, un’impressione.

Ma questo è l’effetto – molto forte – che si ha leggendo Sentieri nel ghiaccio di Werner Herzog.

Sulla rielaborazione e lo scarto nel tempo – e sul fattore tempo: quando ho davvero visto quello che credo di aver visto? e dove? – vi invito a ripensare anche la Lettera del Ventoso di Francesco Petrarca, considerata uno dei primi testi paesaggistici della tradizione occidentale – o almeno come tale la indica un attento studioso contemporaneo di paesaggio, Michael Jakob (il quale, tra l’altro, ne cura insieme a Maura Formica una nuova edizione: La lettera del Ventoso, Familiarum rerum Libri IV, 1, Tararà, Verbania, 1996, con prefazione di Andrea Zanzotto, poeta che ha dedicato al paesaggio la sua intera opera ed esistenza). L’epistola risulta scritta diversi anni dopo l’esperienza effettivamente compiuta di ascensione alla montagna francese; una posteriorità che è giustificata anche e proprio dalla rielaborazione del significato e della portata di quell’esperienza nella maturazione del poeta (tanto che persino le date parrebbero essere state manipolate allo scopo di testimoniare o ubbidire a una sorta di sacralità algebrica), tuttavia mantiene il passo della cronaca. Si tratta, in sostanza, di una specie di diario scritto a posteriori.

Jakob considera La lettera del Ventoso il prototipo della prosa con paesaggio in senso moderno (e che Petrarca abbia spinto la civiltà occidentale verso l’era moderna è indiscutibile) perché ravvisa nel testo quegli elementi che ritiene essenziali al paesaggismo letterario: cioè un io consapevole di sé stesso e del proprio osservare intenzionalmente una porzione di natura come altro da sé (un binomio – soggetto/natura – che il romanticismo porterà alle estreme conseguenze, e di cui il celebre viandante sul mare di nebbia, nel quadro omonimo di Friederich, del 1818, diventerà l’emblema, figurativamente parlando). Tra l’epistola di Petrarca e Sentieri nel ghiaccio di Herzog, il testo proposto in apertura, ci sono oltre seicento anni di prosa dei luoghi e la nascita di un genere vero e proprio – la letteratura di viaggio, per l’appunto. Un arco temporale che si fa tradizionalmente iniziare dal viaggio di Marco Polo in Cina, raccontato ne Il Milione, e proseguire con la produzione legata a quella grande stagione di esplorazione e conquista che fu l’era moderna (resoconti, disegni, mappe e mappamondi che avevano uno scopo fortemente documentario, sia dal punto di vista geografico che etnografico – certo: di una etnografia ante litteram, naturalmente). Viaggi di primo grado li definisce Andrea Cortellessa (cfr l’introduzione all’antologia di racconti Con gli occhi aperti – 20 autori per 20 luoghi, Edizioni Exorma, Roma, 2016), perché veri e propri incontri con lo sconosciuto, con l’inimmaginabile, il diverso tout court, e di cui il britannico Richard Hakluyt che alla fine del XVI secolo pubblicò diversi volumi dei suoi Voyages è considerato l’autore più rappresentativo. Virginia Woolf li descrive come:

«libri magnifici (…) non tanto un testo quanto un voluminoso fagotto di mercanzie varie arrangiate insieme, un emporio, un ripostiglio stipato di sacchi antichi, strumenti nautici obsoleti, enormi balle di lana e borselli di rubini e di smeraldi. Non si finisce mai di slegare questo pacchetto, esaminare quel mucchio, spolverare una gigantesca mappa del mondo o starsene seduti nella semioscurità ad annusare gli strani odori della seta, del pellame e dell’ambra grigia, mentre all’esterno si accavallano le ombre enormi di quel mare elisabettiano assente da tutte le carte geografiche. Tale confusione di sementi, sete, corna di unicorni, denti di elefante, lane, pietre comuni, turbanti e lingotti d’oro, questi mille oggetti di valore inestimabile e assolutamente inutili, erano il frutto di innumerevoli viaggi, traffici e spedizioni verso paesi sconosciuti, effettuati sotto il regno della Regina Elisabetta.»
V. Woolf, Il lettore comune, Il melangolo, Genova 1995, vol. I, p. 53 (ed. originale, The Common Reader, Londra, 1925 )

Per passare da questi vastissimi repertori di diversità paesistica a una prosa di paesaggio vera e propria bisogna attendere ancora un poco: aspettare che le narrazioni si liberino dell’aspirazione all’oggettività e dall’intento didascalico; soprattutto che l’alterità sperimentata attraverso i viaggi si interiorizzi, diventi un io che si sposta, che osserva – e che si osserva osservare – consapevole di sé stesso e del proprio essere cambiato attraverso il viaggio. Di una metamorfosi dello spirito – oltre che di suggestioni provenienti dalle immagini, dai colori, dalle atmosfere e naturalmente dall’arte – andavano in cerca quegli intellettuali (di cui Goethe, col suo Viaggio in Italia e soprattutto con Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister, è il modello) che partivano per il Grand Tour e ne tornavano con diari, appunti, disegni.

Successivamente (mi si perdoni se procedo per grandi approssimazioni) il viaggio è diventato un prodotto, o un servizio dell’industria turistica. Il mercato si è esteso alla massa, e un libricino ad hoc è stato consegnato nelle mani del viaggiatore novecentesco: la guida turistica, quel testo che ti dice non solo cosa vedrai ma anche dove dovrai guardare. Viaggiare con la guida è quanto di più lontano dall’esperienza di de-paesamento necessaria affinché il mondo già tutto conosciuto, studiato, riprodotto, anticipato e copiato nel quale viviamo – dove l’esperienza del diverso è resa impossibile se non come riconoscimento del già visto, come viaggio in un palinsesto paesaggistico della memoria, per dirla ancora con Cortellessa: viaggi del terzo tipo – possa offrirsi come ancora potenzialmente vergine. Come una terra da esplorare. O un modo per esplorare sé stessi.

E così, a grandi falcate, siamo arrivati a Werner Herzog, e al suo viaggio a piedi nell’inverno del 1974, da Monaco a Parigi, compiuto per raggiungere Lotte Eisner – sua collega e amica – gravemente ammalata. Herzog era appena tornato da due anni di riprese in Africa, grazie alle quali comporrà una trilogia di film-documentari in cui quell’entità geografica che per l’immaginario europeo resta il regno dell’altrove per eccellenza, finisce, alla fine del XX secolo, con il cessare di esserlo, se non come residuo, cascame di questa immaginazione, enorme spazio consumato – e consumato anche dall’immaginazione. La trilogia di Herzog comprende Fata Morgana, uno dei suoi lavori più celebrati. La prima scena di Fata Morgana, nella quale la sequenza di un aereo che atterra su una pista nel deserto, tra gli strati caldi dell’atmosfera che rendono poco distinguibili i contorni del velivolo rispetto al cielo – un miraggio, una fata morgana, appunto – viene riproposta ben otto volte, è una duplice dichiarazione. Dimostra – o mostra, semplicemente – in primo luogo la violazione: il deserto è per eccellenza il regno della natura dal quale l’uomo è più lontano; e per definizione l’aeroplano è l’emblema del movimento umano più innaturale, anzi anti-naturale. Il film sembra aprirsi dicendo: questo è il nostro viaggio, questo il nostro movimento. Ma la scena si ripete, e si ripete ancora, e ancora: stesso aeroplano che tocca terra, stesso tremolio dell’aria calda per otto volte, e non se ne può più. Cosa succede? Succede che il patto di credulità con lo spettatore si rompe: lo spettatore non può accomodarsi nello spazio della finzione del film, con i suoi appaganti meccanismi narrativi (appaganti anche dal punto di vista biochimico); né inorgoglirsi per il fatto che si sta documentando. Deve rimanere nel miraggio. Deve chiedersi cosa stia effettivamente guardando. Con questo mantenersi sul confine – senza essere film, senza essere documentario – Fata Morgana dice che ogni sguardo è intenzione e che ogni nostro viaggio non è che un falso movimento.

Di ritorno da questo lavoro in Africa, Werner Herzog, viene a sapere – come dicevo sopra – che la sua amica e collega Lotte Eisner – di Lotte è la voce femminile fuori campo in Fata Morgana – è seriamente ammalata. Contrariamente al buon senso che avrebbe voluto il viaggio più breve possibile, Herzog non prende il primo aeroplano per Parigi. Prende invece una carta geografica e traccia una linea più retta possibile tra la propria Monaco e la Parigi dove Lotte rischiava di morire. E parte a piedi. In pieno inverno. Confidando nel fatto che nella durata del suo cammino Lotte sarebbe rimasta in vita.

È un rito? Una sorta di voto? Un patto con le forze del destino? O il tentativo – estremo – di un vero movimento? Quello affettivo. Quello anti-contemplativo. Cosa può voler dire se non che non possiamo vedere un paesaggio ma solo attraversarlo? Che possiamo solo cambiarlo. Non c’è più un io che contempla, ma qualcuno che agisce, trasforma. Che intorno a questo nucleo, in quegli anni Settanta, il dibattito fosse vivacissimo sia in letteratura che nel cinema, e soprattutto nella ricerca delle interrelazioni tra i due linguaggi, è dimostrato anche dal fatto che nel 1975 Wim Wenders e Peter Handke – rispettivamente come regista e sceneggiatore – vanno a riprendere proprio Goethe, e proprio quello de Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, iniziato di ritorno dal viaggio in Italia e ripreso più volte – intitolando il film Falso movimento.

Negli ultimi due decenni l’atto del camminare è stato oggetto di un profondo ed esteso interesse, di uno studio nel suo rapporto con la formazione del paesaggio dai risultati davvero interessanti anche in termini di riscoperte, difese e nuove mappature dei territori. Penso all’impresa compiuta da Paolo Rumiz percorrendo a piedi la via Appia, che ha avuto un’ampia eco mediatica con pubblicazioni, testimonianze video, trasmissioni televisive. Penso anche, per contro, alle migliaia di cammini che ogni giorno persone qualunque decidono di intraprendere sulle orme di qualcuno che li ha preceduti (un santo, principalmente), senza preoccuparsi – vivaddio – di lasciarne traccia, se non quella del peso del corpo sulla terra, o qualche foto in Istagram. Nonostante anche la pratica del cammino – tra pellegrinaggio, meditazione, e rinascita personale – sia stata immediatamente inglobata nell’offerta turistica sotto forma di pacchetto wellness, essa mantiene, soprattutto per chi la abbraccia come atto di volontà, di discontinuità rispetto a precedenti stili di vita, una carica potenzialmente eversiva; o, se vogliamo in-versiva: un modo per sperimentare un certo nomadismo delle origini, o almeno la dialettica tra nomadismo e sedentarietà, tra immobilità ed erranza, tra homo faber e homo ludens (quella dialettica che agricoltura e pastorizia, città e campagna hanno rappresentato, e tuttora rappresentano almeno sul piano simbolico). Sul cammino come pratica di formazione del paesaggio in senso architettonico – a cominciare dalla strada che rappresenta il primo intervento estetico, di trasformazione/percezione dello spazio, ancora prima del menhir – consiglio caldamente il breve e intenso saggio di Francesco Careri, Walkscapes, Camminare come pratica estetica (Torino, Einaudi, 2006) nel quale ridefinisce la dialettica di cui ho parlato sopra utilizzando il mito biblico di Caino e Abele e lo ripropone come chiave di lettura di tutti quegli atti artistici – legati soprattutto alle avanguardie del Novecento, dal Surrealismo alla Land Art – che hanno voluto ripensare il camminare, il girovagare, come modi, anche militanti, di trasformazione dello spazio. Affine a questa grande corrente mi sembra la prolifica posizione di Matteo Meschiari, nella cui vasta produzione si incontrano geografia, antropologia, ecologia e narrativa – spesso con un’ibridazione tra campi, o addirittura tra generi – e sempre attraversata da un dichiarato impegno di disubbidienza civile; produzione totalmente tenuta insieme da un’idea attiva di paesaggio; formativa, e non solo auto-formativa; definitivamente anti-romantica e anti-contemplativa.

Torno a Werner Herzog dunque, per la quarta e ultima volta. Rileggetelo adesso, ve ne prego. E chiedetevi: che paesaggio viene fuori da un testo che nasce da un’osservazione in movimento? Da un testo che si presenta – e si mantiene tale – come una serie di appunti, di frasi nominali, di oggetti che non fanno paesaggio; tenuti insieme da sensazioni: odori e suoni; collegati più dalle analogie dell’autore che da veri e propri nessi logici narrativi. Un elenco orizzontale di scene, o talvolta neanche quelle: semplicemente elementi giustapposti che l’assenza di verbo impedisce di comporre del tutto – figurativamente e definitivamente in un tableaux. Siamo in un paesaggio disomogeneo; frammentato; totalmente affidati e in simbiosi con lo sguardo e i pensieri dell’autore. Sembra di trovarsi di fronte a istantanee scattate su quello su cui si inciampa.

Questo spazio tra la Germania e la Francia ci appare più come un tempo, che uno spazio; o forse è uno spazio nuovamente immaginato dall’urgenza, corporea, di andare – come quella da quella di mangiare, riposare, cambiarsi le scarpe; e a guidarci è la legge dell’analogia affettiva, che osserva spostando il punto di vista secondo il bisogno, ma non riesce a fare a meno delle somiglianze, delle agglutinazioni, delle devianze. Mi chiedo se questo paesaggio umano non sia che una serie di sbarramenti che impediscono il cammino, un fronte franco-tedesco, da superare ogni volta, rischiando la vita.

Rileggiamo il passo nel quale Herzog decide di forzare una finestra; di scavalcare ed entrare in un’abitazione privata; e soprattutto di lasciare una traccia del proprio passaggio – una traccia scandalosa, peraltro: completa un cruciverba che era stato lasciato a metà – affinché l’effrazione non sia esclusivamente un atto di violenza dell’intimità domestica, quanto, piuttosto, un’affermazione: l’io sono stato qui. Io sono passato. Io. Questo luogo, su cui la vostra abitazione insiste, è sulla mia strada. È anche mio. Ogni passaggio è un paesaggio. È un gesto.
Non possiamo contemplare un paesaggio. Possiamo solo attraversarlo.

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