[Nel corso del laboratorio “Raccontare il paesaggio”, edizione 2018, svoltosi ad Amelia, in Umbria, ma soprattutto nei mesi successivi sotto la guida di Fiammetta Palpati, le e i partecipanti hanno prodotto alcuni testi: non tanto testi descrittivi del paesaggio amerino, quanto – nei fatti – testi di riflessione sulla propria relazione col paesaggio, col guardare, col ricordare, col descrivere. Ne presentiamo qui una selezione, di cui questo è il secondo.
Adriana Ferrarini, che è autrice anche della fotografia qui sopra, scrive una serie di brani in cui un io si sposta, si re-incontra, costruisce o ricostruisce le proprie mappe interiori fatte, tra l’altro, di luoghi, persone, letture; la propria vita come un paesaggio (a dimostrazione di quanto esso sia nello spazio, ma – e forse soprattutto – nel tempo).
Il programma di “Raccontare il paesaggio 2019”, che si svolgerà a Monghidoro, sugli appennini Bolognesi, dal 3 al 20 luglio, è qui. gm].
Introduzione
I luoghi che interrogo e racconto sono quelli attraversati dalla mia storia, quelli che le hanno dato forma. L’obiettivo mette a fuoco un’istantanea in cui differenti fasi della vita mi appaiono come in una carta in rilievo. Depressioni, alture, canyon, vaste pianure. Aspirazioni, paure, amori. Sì, soprattutto pianure. L’Emilia e il Veneto, il Po e l’Adige. Le Dolomiti e l’Adriatico. La villetta con il giardino prigione, le gite al mare con la famiglia, gli anni di piombo, i luoghi delle letture selvagge. I figli. Molto molto altro.
Non so ancora che tipo di cartografia ne verrà fuori. In che direzione è orientata la mappa. So che ogni ricognizione nei territori della mia vita mi mette davanti a uno spaccato stratigrafico che connette il mio viaggio a quello di chi mi ha preceduto e lo mappa all’interno di una “Songline”, così mi piace chiamarla, cioè la linea tracciata, o il territorio disegnato, da chi “ha combattuto, viaggiato, compiuto cerimonie e infine entrato nella terra creando il mondo quale lo vedo” (David Turnbull, da Maps are territories. Science in an Atlas).
Invece di una catena montuosa, la catena del DNA si dispiega nei luoghi che ho attraversato, che sto attraversando.
“L’unico viagio possibile sembra essere ormai all’interno dei segni” (Luigi Ghirri).
Luglio 2018. Foce di Amelia, Monastero le Grazie, Country House
L’esercizio consiste nel camminare, contare sessanta passi, fermarsi, descrivere quello che ti trovi davanti.
Cinquantacinque passi mi portano fuori dal cancello, salgo a sinistra per rientrare dalla porta principale, altri cinque e mi fermo: sono davanti al muro giallo rosato del lato a est. La stradina sale lievemente fino al bastione che raccorda il piano superiore a questo che sull’altro lato è interrato. Nella parete di fronte a me, quasi alla mia altezza è incassato uno sportello, che credo chiuda un quadro elettrico, ha la vernice grigiastra sfogliata, che si accartoccia lungo i bordi. Ma non è quello che attira la mia attenzione, quanto la fila di formiche. A un metro da terra una doppia fila ininterrotta di formiche si muove nei due sensi opposti, dal cancello fino al bastione. Descrivono una linea continua che sembra tracciata da una mano malferma e misura circa una decina di metri.
Le formiche si muovono senza fermarsi mai, a una velocità sostenuta. Quando trovano un ostacolo, una sporgenza sul muro, un grumo di terra, le finestre, lo evitano alzandosi o abbassandosi rispetto al loro tragitto, senza mai interromperlo. Sembra un’autostrada a due corsie a buon scorrimento. Cerco di bloccare il loro percorso con un bastoncino. Come se l’ostacolo fosse già previsto, proseguono, si spostano solo un po’ più in alto e accelerano.
Le formiche, leggo, comunicano tra loro tramite messaggi chimici affidati a sostanze, dette feromoni. Probabilmente questi sono recepiti dalle antenne, a loro volta rivestite da una sostanza cerosa o grassa – presente anche sulla superficie di molte foglie – formata da idrocarburi cuticolari (CHC): è questa che riceve e trasmette diversi segnali sociali, inclusa l’identità della colonia e del nido.
In breve, le antenne veicolano informazioni e, se vengono asportate, o se solo ne viene asportato il rivestimento, il comportamento di una formica cambia: in genere mostra minore aggressività verso chi non appartiene al nido.
Aprile 2016. Università di Göteborg
Sono con un gruppo di studenti italiani e di altre scuole europee a un incontro di presentazione dell’università.
Un giovane olandese, ricercatore in Chimica, ci racconta in breve la sua storia – un anno sabbatico in giro per il mondo, una storia d’amore con una ragazza svedese, l’arrivo e l’iscrizione all’università di Göteborg, per vivere accanto alla sua ragazza, e l’inattesa folgorazione per la chimica. Poi ci chiede di discutere in coppia che cosa è per noi la felicità.
È un ragazzo alto, si muove con scioltezza, ha un sorriso aperto e luminoso. Percepisco l’attrazione che esercita sulle giovani studentesse: l’eccitazione di dare la risposta giusta. D’altronde alle domande precedenti, il primo viaggio dell’uomo nello spazio, la distanza dalla terra alla luna, eccetera, c’era sempre una risposta univoca.
Le risposte sono diverse: stare con gli amici, la casa, un viaggio, gli amici, la salute, una bella giornata, la danza, l’amore.
Il ricercatore ci ascolta divertito, poi mostra una formula. Questa è la felicità. Un neurotrasmettitore. E trionfante indica sullo schermo alle sue spalle la formula della dopamina.
Ottobre 2018, ore 10 di sera. In volo da Colonia a Londra
Sto andando a trovare mia figlia che vive lì da due anni. Da settimane, come una formichina, sto accumulando le cose da portarle. Come accumulavo cose – camicine, tutine, bavaglioli – prima che un ormone, l’ossitocina comandasse al mio utero di metterla al mondo, ai miei seni di produrre latte per sfamarla.
Guardo dal finestrino il paesaggio che stiamo sorvolando. Il territorio che va dalla Germania all’Inghilterra appare come una vasta area neuronale. Le vie di comunicazione sono i dendriti, le città, più o meno estese, i gangli. Mio marito, seduto al mio fianco, mi dice che per lui il paesaggio notturno assomiglia invece a un circuito elettronico. In effetti, c’è una certa similarità tra un circuito elettronico e una rete neurale, quasi che la mente umana potesse progettare solo in base a una manciata di modelli, sia questo un vasto territorio o un microchip.
Continuo a guardare le luci gialle o bianche o aranciate addensate in alcuni punti e prolungate in filamenti di strade che instancabili collegano i centri abitati e li percorrono in un senso e nell’altro. Immerse nel nero assoluto della notte, mi emozionano per la loro bellezza, per la finezza della loro filigrana. La terra mi appare come un gioiello favoloso.
Novembre 2108, Padova
Che la felicità sia identificabile con la formula chimica della dopamina è ridicolo, se non irritante.
Ma pensare che il mio corpo è continuamente percorso da segnali prodotti da ormoni – quali la dopamina e la ossitocina – che viaggiano lungo le reti neuronali e guidano i miei comportamenti, mi affascina e mi inquieta nello stesso tempo.
La chimica iscrive il reale entro delicate strutture geometriche, poligoni, alberelli, catene, nella strenua volontà di indagare la varietà dell’esistente per arrivare ad una reductio ad unum, individuare il principio che presiede alla vasta diversità degli esseri. A costo di strappare le antenne a tutte le formiche. Di sezionare, tagliare, ibernare, affamare, togliere la vita, proprio come fa, suo malgrado, con la cicala l’appassionato ricercatore di suoni della favola di Galileo.
Mi chiedo se anche noi umani siamo oggetto di tanta curiosità da parte di qualche essere molto superiore a noi per forza e potenza, se c’è un occhio (un algoritmo, forse?), che osserva sorpreso o compiaciuto, i nostri traffici, le nostre autostrade, e ogni tanto si diverte a infilare un bastoncino. Così, solo per vedere come deviamo.