Testo con paesaggio / Sesto esempio: la storia

Testo con paesaggio / Sesto esempio: la storia

di Fiammetta Palpati

[Un paesaggio – o un’idea di paesaggio – accomuna un annuncio immobiliare a una poesia di Marianne Moore. Nel mezzo una scelta semiseria, in alcuni casi provocatoria, di testi molto vari per scopo, struttura e funzione: un manuale di giardinaggio e una delibera comunale, un racconto e una guida turistica, una canzone pop e un saggio filosofico, un libro di storia e un taccuino di viaggio.
Quello che vi propongo in questa rubrica è un tentativo giocoso di stressare un soggetto che nonostante la sua giovane età, o in virtù di essa, dimostra un certo appeal sia per la produzione artistica che per la riflessione teorica. Dieci esempi disparati ma accomunati dal fatto di raccontare direttamente o indirettamente, incidentalmente o con intenzione, uno dei luoghi comuni più affascinanti. Proseguiamo, dunque, con un altro esempio di saggistica – storica, questa volta; una bella monografia dedicata al paesaggio agrario italiano. fp].

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«Abbiamo già rilevato … come in una data società, l’interesse ed il gusto per il paesaggio pittorico sorgano e decadano, più spesso, in stretta associazione con l’interesse ed il gusto che quella società stessa manifesta per le forme, più o meno definite, che essa imprime nel paesaggio naturale, nel corso ed ai fini delle sue attività agricole. (…) Nell’Italia barbarica – ma particolarmente nell’Italia bizantina, ove un più esperto formalismo sociale e culturale gli dà tutto il suo rilievo – questo nesso fra paesaggio reale e paesaggio pittorico si manifesta con particolare evidenza. Per quanto riguarda i contenuti, intanto: alla degradazione del paesaggio agrario, ed al netto prevalere delle attività agricole dell’allevamento su quelle agricole, risponde appieno l’importanza quasi esclusiva che il paesaggio pastorale assume nell’arte bizantina. Ma più notevole ancora, è il modo in cui questo nesso si manifesta quanto alle forme del paesaggio pittorico. Così come, nel paesaggio reale, si vien cancellando il regolare reticolo delle vie vicinali e dei confini, si vien disgregando l’unità di forma di un paesaggio agrario organizzato e ben delimitato; così nel paesaggio pittorico, l’unità della composizione si disgrega, non trova più in se stessa il suo limite, si dissolve e si dispiega nella ripetizione dei suoi elementi costitutivi: che, da motivi paesaggistici, si tramutano – perduto ogni diretto riferimento reale – addirittura in motivi decorativi e ornamentali. Nello splendido mosaico dell’abside di S. Apollinare in Classe, a Ravenna … un artista del VI sec. ci mostra come questi processi di disgregazione del paesaggio agrario e del paesaggio pittorico si accompagnino nella società bizantina, con un rigore ed una perfezione formale. Che si ritrova nella stilizzazione di queste immagini di rocce, di piante e d’animali, come nelle figure dei logici e dei retori, come nelle formule giuridiche e negli ordinamenti sociali di questa età (…) che son quelli di una società urbana ed agricola degradata a società pastorale, disgregata e al tempo stesso cristallizzata in ordinamenti che ne mortificano ogni slancio.»
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari, 2017, pp. 75-77 (1^ ed. 1961).


Con il sesto esempio, con il quale restiamo nella saggistica – di tipo storico stavolta – superiamo la metà dei testi analizzati finora – insieme ai quali siamo andati un po’ a zonzo, tirando il nostro paesaggio per la giacchetta – e ci avviciniamo al cuore del tema. Ecco, ritengo che la ricerca di Emilio Sereni, da cui ho estratto il brano che avete appena letto, imposti un sano e utilissimo discorso sul paesaggio.
In primo luogo lo restituisce all’ambito che gli pertiene, o a cui esso appartiene per nascita: quello geografico: l’accezione geografica è indiscussa e priva di ambivalenze (o quasi priva di ambivalenze). Secondo la voce del vocabolario Treccani il paesaggio è:

il complesso degli elementi che costituiscono i tratti fisionomici di una certa parte della superficie terrestre (…) la sintesi astratta dei paesaggi visibili, in quanto rileva di essi soltanto i caratteri che presentano le più frequenti ripetizioni sopra uno spazio più o meno grande, superiore in ogni caso a quello compreso da un unico orizzonte: p. carsico, glaciale, desertico, se gli elementi caratterizzanti prescelti sono quelli fisici del suolo; p. forestale, steppico, in base a elementi fitogeografici; p. a risaie, minerario, portuale, in base a elementi antropici.

In particolare Sereni introduce qui – mutuandola dagli studi francesi degli École des Annales, che avevano ampliato il campo di osservazione a nuovi oggetti e fenomeni storici, e in particolare dall’opera di Marc Bloch – la nozione di paesaggio agrario e lo definisce “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” (Ivi, p. 29); quello che si è venuto a formare fin dall’età neolitica, quando le “nuove attività produttive dell’uomo dovettero incidere, ben più profondamente di quel che non fosse avvenuto con le più antiche attività della caccia e dell’economia di raccolta, sul paesaggio naturale del nostro paese: i cui boschi, le cui macchie, le cui praterie cominciarono a essere chiazzate dal fuoco dei debbi e dalle radure dei dissodamenti” (ibidem). Dopo averlo definito ne ricostruisce in maniera certosina le forme mettendo in relazione elementi naturali, tecniche produttive, sistema sociale, e rappresentazione artistica e allestendo uno dei più consistenti magazzini linguistici a disposizione di chiunque voglia raccontare il paesaggio, senza incorrere nella maniera quando non nello scimmiottamento.
Sereni inventa una terminologia che – come ammette egli stesso nell’introduzione – non poteva prendere dal modello francese poiché questo non si attagliava alla realtà italiana. Il lessico è stato inventato, se così si può dire, a tavolino. Preso in prestito dalla storia, dalla geografia, dall’agronomia, dall’economia, dall’urbanistica, dal diritto e dall’arte, questo nuovo modo di osservare territorio-società-arte riesce a rendere molto bene quella cultura o civiltà del paesaggio agricolo che in Italia – dove per ragioni legate alla dimensione, alla morfologia, al clima, non si avverte che in misura limitata la presenza di natura allo stato selvaggio (quella che altrove e soprattutto al di fuori dell’Europa ha generato una cultura dell’esplorazione e una ricerca della wilderness) – si è particolarmente sviluppata. Si è sviluppata insieme a un immaginario paesaggistico che ha finito col coincidere tout court con la sua rappresentazione più amata e imitata: il bel paesaggio del Bel Paese è soprattutto rurale.

Partendo dall’epoca neolitica e fermandosi – per limiti biografici dell’autore – agli anni Sessanta del Novecento si tratta di una sintesi magistrale di uno dei soggetti che ha contribuito a formare il nostro immaginario collettivo. Dopo più di un secolo di arcadie, romanticherie, idilli paesaggistici (a cui fanno da controcanto le nuove pizie degli ecologismi più catastrofici dei nostri giorni), questo testo fa una bella pulizia. Da una parte sgonfia il discorso teorico sul paesaggio dall’ipertrofia fagocitante di tutte le discipline che hanno a che fare col paesaggio, consegnandolo agli studi che gli sono propri, quelli geografici – quindi a lessico e strumenti di analisi specifici (principalmente studi catastali, urbanistici, toponomastici, di linguistica storica, degli istituti giuridici, delle tecniche agrarie; e naturalmente dei sistemi produttivi); dall’altra dimostrando in modo incontestabile che il paesaggio – e per quanto ci riguarda il paesaggio agricolo – è anche la rappresentazione del paesaggio.

Viene così alla luce quella ambivalenza di cui già il termine paesaggio è portatore, dal momento che nelle sue accezioni di significato esso designa allo stesso tempo sia la porzione di spazio che si abbraccia con lo sguardo, che la sua raffigurazione entro una cornice; la visione e il quadro. Natura, soggetto, e arte. Sono centinaia, nel testo di Sereni, le tavole con le quali l’autore corrobora la sua ricerca certosina, svolta su un arco temporale di oltre due millenni, con l’arte figurativa: decorazioni, affreschi, mosaici, tele, fotografie. Ma quel che dimostra il testo è che questa rappresentazione, avvenuta e avvenente soprattutto attraverso l’arte, non è soltanto fonte, documento, copia o trasposizione tout court del referente reale, quanto rielaborazione culturale e linguistica (linguistica in senso molto ampio) che entra a far parte di un sistema paesaggio, di una dialettica con almeno tre elementi: la natura (che metterei tra virgolette poiché va intesa come principio astratto), l’uomo (come soggetto che la trasforma piegandola alle proprie esigenze abitative e produttive ed espressive) e la rappresentazione artistica (non solo il prodotto dell’incontro, quanto il soggetto trasformato dall’incontro). Una rappresentazione che è memento – e dunque monumento, fissazione della forma, immagine – ma anche generatrice di immagini, di linguaggio.


Sopra: Forme di degradazione del paesaggio agrario.
S. Rosa, Paesaggio con arco di rocce e viandanti, sec. XVII; F. Palpati, Fondo agricolo a Macchie di Amelia.

L’impostazione diacronica, che mostra successione di paesaggi nelle medesime zone, registrando e interpretando il rapporto tra segno e fenomeno, mette in evidenza la fluidità di un elemento che siamo invece portati a pensare come statico, inalterabile. Altrimenti detto: inerte. Come una cosa bella da contemplare ma che fondamentalmente ci è estranea. Al massimo possiamo smuoverci per proteggerla e conservarla in quella che riteniamo la sua forma migliore – fissarla – se la sentiamo minacciata. Questo ci deresponsabilizza: evitiamo di pensare che il paesaggio è la forma che assume la terra in cui siamo. Noi siamo paesaggio. Ogni nostra azione, spostamento sulla terra, la modifica: crea un paesaggio. La dimostrazione che “ciò che è dato è fatto”.
Ma il valore dell’analisi diacronica effettuata da Sereni – paesaggio nel tempo – almeno per il nostro discorso, è anche un’altra.
Se il paesaggio è – come è – l’insieme degli elementi naturali, artificiali e antropici legati a un determinato ambiente, cioè una sintesi astratta che va ben oltre lo spazio visivo compreso in un unico orizzonte, allora un paesaggio concreto, individuabile, definibile, rintracciabile – visibile – non può essere che nel divenire, nella storia. Senza un legame materiale del luogo al tempo – una traccia, una fonte, un documento – tra una certa età e un certo luogo, possiamo parlare di paesaggio solo in modo astratto. Il paesaggio diventa concreto, individuabile – e quindi raccontabile – soltanto nel tempo.
Certo, nel tempo, come dicevo sopra – nel racconto che fissa il tempo – esso si cristallizza; e cristallizzandosi, non può che essere smarrito; e dunque continuamente vagheggiato, e dunque ricordato o visto attraverso qualcosa di altro.

Il testo di Luisa Bonesio, nell’esempio precedente, ci aveva lasciati a pensare che il paradigma visibilistico, che porta all’immagine estetica (chiamiamola pure cartolina), ha contribuito alla musealizzazione di certi luoghi e all’abbandono di altri.
Sereni non ha visto quel che ne è del paesaggio agrario dei nostri ultimi sessant’anni. Soprattutto non ha assistito al degrado di quel paesaggio suburbano – compreso tra la campagna che conserva, per quanto trasformate, le forme agricole, e la città dalla quale esse ne sono escluse – in una vasta gariga incolta. Abbandonata o urbanizzata. O urbanizzata e nuovamente abbandonata.
Sereni afferma, e lo fa chiaramente nel brano che ho selezionato, (affermazione con la quale, peraltro, si può anche dissentire), che c’è una stretta relazione tra la degradazione del paesaggio – come perdita della forma raggiunta conseguente all’inadeguatezza tra rapporti e tecniche di produzione e sovrastrutture sociali e politiche – e segno pittorico, che non è legata tanto alla mancanza o alla perdita di tecnica pittorica, o a disinteresse verso il paesaggio, ma a come il soggetto avverte il disordine e lo rappresenta. Il segno diventa incapace di rappresentare il particolare, le geometrie, le regolarità, la complessità. Quindi o si semplifica, irrigidendosi e magari riducendosi a motivo, a decorazione, oppure – come è avvenuto per esempio nel Seicento, quando il paesaggio agrario ha vissuto un altro dei suoi lunghi periodi di imbarbarimento e abbandono – si esalta e si esaspera nella rappresentazione di questa perdita di forma, rifiutando il segno classico e aderendo alla scompostezza del paesaggio rurale degradato e sconvolto, in cui i segni delle passate civiltà non appaiono che come rovine.
Ovverosia: raggiunta una certa armonia, una sorta di coerenza tra tecniche produttive e sistema economico sociale – che è stata massima in determinati periodi storici, in particolare durante la lunga civiltà romana che ha di fatto tracciato indelebilmente il paesaggio agrario – e che secondo la sua formazione, storica e storicistica, Sereni non poteva che considerare progressiva – qualsiasi perdita della forma è frutto di un imbarbarimento e un regresso sociale. Ma questo ha prodotto – e tuttora produce – nuove estetiche.
Mi sembra che stia avvenendo da noi, nei nostri tempi, qualcosa del genere. In particolar modo in luoghi dove il senso della perdita di forma è molto evidente – penso a una città come Roma – si sta sviluppando quasi un’estetica del degrado e della liminarità che va oltre il valore di denuncia del proliferare di una sorta di gariga urbana.

Benozzo Gozzolo,I magi (1459); particolare.

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