[Nel corso del laboratorio “Raccontare il paesaggio”, edizione 2018, svoltosi ad Amelia, in Umbria, ma soprattutto nei mesi successivi sotto la guida di Fiammetta Palpati, le e i partecipanti hanno prodotto alcuni testi: non tanto testi descrittivi del paesaggio amerino, quanto – nei fatti – testi di riflessione sulla propria relazione col paesaggio, col guardare, col ricordare, col descrivere. Questo quarto testo, di Daniela Campagna, ci ricorda una cosa fondamentale: che nulla noi guardiamo per la prima volta. Ogni sguardo gettato su un oggetto, su una persona, o appunto su un paesaggio, attira dalla memoria alla coscienza qualcos’altro. E lo sguardo gode della propria doppia vista: perché è proprio lì, nel combiaciare e nell’attrito del qui-ora e dell’un’altra-volta che si produce il senso, che dalla semplice contemplazione si passa alla comprensione. Del paesaggio? No, no: di noi stessi. Il programma di “Raccontare il paesaggio 2019”, che si svolgerà a Monghidoro, sugli appennini Bolognesi, dal 3 al 10 luglio, è qui. gm].
Introduzione
Quanti paesaggi può contenere uno sguardo?
Il numero è certo limitato, come lo è la natura dei nostri occhi.
Eppure, in un gioco di rimandi, questi luoghi possono moltiplicarsi all’infinito, o ridursi alla loro essenza, alla nudità di un segno che li contenga tutti.
È spesso per caso che ci troviamo nel luogo esatto di una rivelazione. O se non è per caso, ci siamo arrivati forse per altre ragioni, che poco, a volte nulla, hanno a che fare con ciò che in quel luogo troveremo. Una epifania. Un caleidoscopio. Uno specchio.
Amelia è uno specchio in cui rivedo me stessa.
Amelia è uno specchio
Che ci fosse una caldera nascosta da qualche parte non avevo dubbi: me ne accorgo sempre prima di saperlo, come i cani i tartufi, o certi animali i terremoti. Anche così da lontano, da questa terrazza esposta ai venti. Credo si tratti di una vibrazione, un nucleo di energia rimasto annidato nell’aria o nella terra. Deve esserci in me, sepolto, un atomo pronto a far reazione con quel nucleo, a riconoscerlo. Forse deriva da lì anche il fascino dei terremoti, quella inconfessabile attrazione per lo scuotersi della terra.
Oltre i monti Cimini, lo riconosco intagliato nel profilo il Soratte: è lo sguardo più che il dito di Fiammetta a indicarlo, lì, oltre Montenero. Ancora oltre, a ovest, c’è il mare. Ma sono onde già i colli lì intorno, da questa prua di terrazza, il basso ventre conficcato alla ringhiera di ferro a far da perno al protendersi del busto nel vento.
E ricordo un mare nel tondo del duomo di Amelia, vele che battono i flutti da dove santa Firmina arrivò. Una piccola santa bionda, il capo cosparso di fiori, venuta dal mare per morire tra i monti.
Una piccola santa bionda, il capo cosparso di fiori, come Rosalia nelle immaginette sul tavolo di nonna, d’estate, a Palermo.
C’è il mare ovunque, attorno e nel cuore di Amelia.
E in questo mare ora galleggia il Soratte, il suo profilo intagliato nella valle del Tevere: inconsapevole del mio divagare, il dito di Fiammetta torna a indicarlo, ad accarezzarne il contorno.
Vides ut alta stet nive candidum Soracte. La voce di mio padre è una cantilena che torna a danzare. Dei vivi e presenti non pensi alle voci, ai timbri, a quell’unico vibrare di fiato dentro a corde vocali che ciascuno si porta a spasso nel mondo. È nell’assenza che le senti davvero, le voci, che ne sezioni con cura il modulare, l’ondeggiare, il battito.
Vides ut alta stet nive candidum Soracte. È un paesaggio la voce di mio padre. Ora esiste solo lui in quel magma che fluttua.
Mentre il dito e lo sguardo di Fiammetta passano ad altri orizzonti, il Soratte resta a guardami, senza nevi sulla cima né alberi di ghiaccio, leggermente sfumato d’azzurro in questa sera d’estate.
Ruoto altrove lo sguardo, ma quel prisma a due facce dalla cresta seghettata mi richiama insistente.
Eppure, devo averti già visto. O forse è solo per via del tuo nome.
S O R A T T E: lo sgrano lettera per lettera, come un rosario.
Le voci sfumano alle mie spalle, si allontanano gli altri, resta il vento.
Eppure, devo averti già visto, Soratte.
Eri il promontorio di Monemvasia proteso all’Egeo, con quella abitudine agli scuotimenti delle viscere, ai terremoti, e quelle caldere dissimulate tra le isole.
Eri monte Pellegrino, annidato sulle spalle di Palermo, baluardo al Tirreno e confine alla città.
Avevo vent’anni quell’estate in mezzo all’Egeo. E non importa quanti solstizi avessi davvero attraversato, io avevo comunque vent’anni.
C’era un uomo che, ogni tanto, la sera, posava la testa sulla mia spalla, strappandone un vuoto che prima ignoravo. E non importa quanti inverni avesse sulla fronte, lui aveva comunque vent’anni. Quella testa addormentata occupava lo spazio e lo rivelava. Era un’ombra nel pozzetto rimasto vuoto di voci, e non chiedeva di più.
Fu appena salpati da Milos che il motore ci diede le prime avvisaglie, un rantolo sordo, uno scoppiettio. Ne ridemmo spavaldi, avevamo le vele e un soffiar di Meltemi, proseguimmo la rotta a occidente.
Furono giorni di vento e di spruzzi, le onde si accartocciavano una all’altra, cozzavano allegre lanciando al cielo minuscoli pinnacoli di spuma, i riflessi del più intenso blu si susseguivano irregolari e costanti.
Sapevamo di sale fin dentro le orecchie e lo stomaco.
Un mezzogiorno, d’un tratto, comparvero i delfini, e tesi alla prua ci accompagnarono. Noi ci screpolavamo le mani battendo lo scafo, perché così, qualcuno aveva detto, ci avrebbero seguito più a lungo.
Le sere scivolavano via nell’ouzo color del latte, scandite dai cambi di turno in pozzetto.
Il faro di Monemvasia ci sorprese una notte senza luna, roteando su noi a cadenza di valzer.
Lo urlò Giulia, il dito puntato a nord-ovest. Sei occhi seguirono il dito.
Un faro dopo giorni di mare è sollievo e rimpianto. Un porto è un attracco, una tregua e un riposo; un porto è un attracco, una fine e un esilio. Avevamo già nostalgia di quella massa indistinta di blu.
Nell’oro dell’alba, il promontorio di Monemvasia divenne un profilo violaceo. Accarezzai con lo sguardo quel solido appena accennato che mostrava una faccia soltanto, chiedendomi se a prismi o a parallelepipedi l’avrei potuto assomigliare. C’era qualcosa nel suo disegno che mi tornava familiare, gli occhi pesanti di sonno ne percorrevano il contorno alla ricerca di un segno.
Scesi sottocoperta liberandomi di ogni strato di indumento ormai intriso di umido e salsedine, mi spogliai in cabina, mi addormentai di sasso.
Mi svegliò la voce di mio padre Vides ut alta stet nive candidum Soracte.
Il Soratte, pensai, cosa c’entra il Soratte? Mi ricordai in dormiveglia d’una sera d’infanzia e del monte che sta su Palermo, caro alla Santa, del sapor di dolciumi, della mano di mio padre, di due braccia estranee, dei fuochi del festino.
Fu nel tardo pomeriggio e fu di bolina che il promontorio finalmente ci sovrastò, aspro e arrossato dal vento, fiero del suo essere isola ma appeso alla terraferma da un filo di ponte. Una nostalgia acuta mi aveva afferrato quel giorno, di cose perdute, di mari lasciati.
Dopo giorni di vento chiudemmo il fiocco, prua al vento avvolgemmo la randa.
Fu lì che il motore ci diede l’avviso finale, uno scoppio sordo, una colonna di fumo. Spegnemmo tutto e ci lasciammo ondeggiare. Nessuno aveva più voglia di ridere. Ormai troppo al riparo per riprendere il vento, ma abbastanza lontani da riva per non temere gli scogli, eravamo in completa balìa. Galleggiammo per ore, in attesa di qualcuno che ci trainasse in porto, tutti fissando la terra quasi a tenerla lontana, a tenerci al riparo col solo pensiero.
Il promontorio dal basso era un fortino massiccio, un paese circondato da mura dormiva aggrappato al suo fianco: Monemvasia, con un solo ingresso. Da sotto in su lo scrutavo, guardinga.
La roccia si fece arancione e rossa e rosata e di un tenero azzurro. Poi buia, nella sera.
Eravamo tutti in pozzetto, stretti. Nessuno parlava. Qualcuno beveva.
Vides ut alta stet nive candidum Soracte.
L’uomo appoggiò la testa sulla mia spalla, ma questa si fece molle e gli scivolò d’un lato; lui si ritrasse.
Vides ut alta stet nive candidum Soracte.
Papà, e il Soratte cos’è? Ero bambina, gli stringevo la mano, trascinavo i piedi assonnata, scivolando tra i resti del Festino rimasti appiccicati all’asfalto.
Quid sit futurum cras fuge quaerere recitava mio padre, gli occhi già assenti.
Avevo sei anni quell’estate a Palermo, forse sette, non so.
Palermo, di luglio, era sempre una festa. Era il dilatarsi del tempo, la luce, una interminabile autostrada con una sosta a Roma e un’altra al traghetto. Erano i nonni, affacciati alla finestra. Era la baraonda dei cugini all’arrivo. Era scoprire di appartenere a qualcuno, che esisteva anche lontano da noi.
Avevo sei anni, forse sette, non so, quando mio padre si arrese al Festino: solo questa volta, va bene, ci andiamo. Non era uomo da folle, mio padre. Era uomo da boschi, e montagne innevate.
E di folla ce n’era tanta, quel 14 luglio a Palermo: una folla colorata e appiccicosa, vociante, odorosa. Il Foro italico affacciato sul mare era il posto più adatto per attendere il passaggio del carro.
Quando l’alta prua della barca varcò la porta della Marina fu accolta da urla.
Viva Palermo, Viva Santa Rosalia!
La barca era immensa e tutta d’oro, la spingevano ruote e persone. Mi alzai sulle punte, saltai.
Tirai con la mano la mano di mio padre, stringendo nell’altra un piccolo cono di semenza, tutto stropicciato. La sua mano era calda, e saltando su punte di scarpe io tiravo quella mano verso il carro.
Fu un gioco scivolarne via piano, mentre pance, braccia e gambe si infilavano in mezzo. Sentii mio padre urlare il mio nome, ma ero già lontana, sommersa da quei pezzi di corpi.
Furono due grosse braccia a sollevarmi di colpo, stringendomi fino a far male, mentre il mio piccolo cono stropicciato di semenza precipitava piano. Le due braccia mi tenevano sollevata, ondeggiando: non più pezzi di corpi attorno a me, ma teste che scivolavano sotto in una giostra di voci e, in fondo, il grande carro della Santa. Fu così che la vidi, una Santa piccola e bionda coperta di rose, al centro della grande barca che fendeva la folla. Ruotai la testa per non smettere di guardarla, mentre quelle braccia estranee mi trascinavano via, risalendo all’indietro.
Quelle braccia mi consegnarono a mio padre una manciata di minuti dopo: era bianco bianco, si teneva una mano sul cuore. Mi strinse forte, e non si arrabbiò: sentii il suo respiro affannato, le parole strozzate mentre stringeva la mano di quelle grosse braccia.
Guarda, papà! urlai, mentre un crepitio scoppiettava alle nostre spalle. Un ventaglio di fuochi incendiarono la marina e le barche. Tutto ciò che era notte divenne colore. Mio padre si teneva ancora una mano sul cuore, mentre nell’altra stringeva la mia. Non me la lasciò più quella sera, né io ci provai. Ce ne tornammo così, a passi lenti camminando in direzione del monte che sta su Palermo, scivolando tra i resti del Festino rimasti appiccicati per terra.
Quello è Monte Pellegrino, papà? chiesi puntando col dito il profilo del monte.
Sì, e la Santa viveva in una grotta là dentro.
Mi immaginai quella piccola santa bionda, coperta di rose, dentro al buio di quella montagna.
E non aveva paura?
Vides ut alta stet nive candidum Soracte, lui cantilenava assorto in qualche altrove.
Papà, e il Soratte cos’è?
Quid sit futurum cras fuge quaerere recitava mio padre, gli occhi già assenti.
E in questa prua di terrazza è calata la sera. Si è placato il vento.
Libero il basso ventre dalla ringhiera di ferro, ritraggo il busto e lo ruoto, lentamente, a destra. Lascio il Soratte addormentato, seguo l’ondeggiare dei colli, fino alle antiche case aggrappate alla rocca di calcare.
Dorme Amelia sulla collina, cullata dal silenzio delle cicale, canto interrotto di orchestra. L’orologio nella piazza batte un altro tempo, lontano, andato a scorrere altrove.
Più in basso vibra il presente: le cene di gala dei diciottenni, i giardinetti dei bambini, le gelaterie, le panchine dei vecchi.
Dorme Amelia sulla collina. Nella piazzetta deserta tre donne battono lo stesso tempo di un orologio fermo a chissà.
Un pensiero riguardo “Amelia è uno specchio / da “Raccontare il paesaggio”, 2018”