di Fiammetta Palpati
[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica che raccoglie brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. «Determinazione e sfocatura» è la coppia su cui ragioniamo in questo articolo. In copertina una fotografia di Olivo Barbieri, gentilmente concessa dall’autore. fp]
Ciò che è vicino è definito, ciò che è lontano è sfocato. Questo all’esperienza degli occhi, almeno; e delle orecchie – diciamo quindi dei sensi. E una rappresentazione che voglia essere realistica (sia essa un dipinto, un romanzo o qualsiasi altra forma di racconto del mondo) – considerando in questo caso realismo il tentativo di riprodurre l’effetto dei fenomeni come naturalmente vengono percepiti (o elaborati) – rispetta, in linea di massima, questo principio. Per questo la rappresentazione del paesaggio, che nell’arte come nella letteratura è (o è stata) principalmente sfondo, fondale in lontananza, comporta una perdita di particolari: oggetti ed esseri umani appaiono avvolti nell’indeterminazione. Le masse hanno più rilievo dei contorni; le linee, cioè i limiti tra una cosa e l’altra, la fine di un oggetto e il principio di un’altra, non sono nette.
Un albero e un muro scrostato, alla distanza, possono apparire come un’unica massa cromatica. Che l’albero sia un cipresso o un abete ha poca importanza, ciò che importa è che esso faccia tutt’uno col muro, e che la scrostatura dell’uno sia la scortecciatura dell’altro. Una parola – massimo due – è sufficiente a collocarli entrambi sulla scena, e vi invitiamo a cercarla.
Al contrario: una ricchezza di particolari, di minuzie, di specialismi, avvicina il lettore, lo fa concentrare, lo trastulla; e lo distrae. Questo non è un male, e neanche un bene. È un effetto, e dobbiamo esserne consapevoli. Possiamo avvicinarci e mettere a fuoco – obiettivo e lingua; o possiamo restare nella distanza, accettare l’indeterminazione; o creare una sfasatura: avvicinarci, non usare non gli occhi e nemmeno le orecchie, ma il senso della prossimità: il tatto, la pelle, il corpo.
Così come un buon obiettivo fotografico è in grado di mettere a fuoco – cioè di rendere nitido – ciò che è lontano, la narrazione può fare altrettanto attraverso una scelta di lessico e di ritmo (e quindi di sintassi). Il fitto di un bosco può anche essere reso dall’infittirsi di termini che evocano oscurità, ombra, umidità, odore di funghi e putrefazione dal sottobosco, piccoli rumori di animali.
Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.
