[Pillole di paesaggio è la nuova rubrica in cui raccoglieremo brevi testi, introduttivi al ragionamento e alla pratica del paesaggio nella narrazione, e imperniati su una coppia di termini – talvolta delle vere e proprie antinomie, più spesso accostamenti frutto di nostre scelte, o del senso comune. La coppia che vi offriamo in questo articolo è «Io e natura». fp]
di Fiammetta Palpati
«Io» e «natura» sono vocaboli di alta, altissima frequenza; termini che usiamo quotidianamente, certi di non essere frantesi. Con la stessa disinvoltura e senza esitazioni utilizziamo «paesaggio», alternandolo a panorama, di cui ci sembra una versione più raffinata, o più cool, più contemporanea. Non abbiamo torto, il paesaggio è molto di moda, ne parlano fotografi, architetti, giardinieri, amministratori locali, filosofi, ambientalisti; adesso anche noi, che scriviamo e pretendiamo di narrare – narrare, non descrivere – il paesaggio. Ecco, cercheremo di mettere in dubbio questa disinvoltura (a nostro vantaggio, ci auguriamo).
Ciascuno di noi ha almeno un amico appassionato di fotografia, che pubblica nel suo Facebook o nel suo Instagram bellissime immagini: grandi vedute, ampie porzioni di spazi aperti, presi da lontano e dall’alto; con sotto delle didascalie del tipo «Panorama di Porto Recanati dal Monte Conero», o viceversa: «Il Monte Conero da Porto Recati». E sicuramente guardare queste fotografie ci dà piacere. Commentiamo: che bel paesaggio. Ma, ecco: «panorama» e «paesaggio» sono termini – come dicevamo – contigui ma non interscambiabili. E per capire la differenza possiamo ricorrere alla nostra coppia di termini: «io» e «natura». Affinché una veduta sia un «paesaggio» c’è bisogno che chi guarda – poiché anche il semplice atto di osservare è costitutivo – sia consapevole di avere di fronte a sé (e di riprodurre, magari attraverso lo scatto fotografico) non uno spazio dato, oggettivo, inerte, da descrivere; ma un’esperienza complessa, un’esperienza di incontro con un mondo (o un pezzo di mondo) che egli riconosce come qualcosa a cui si sente prossimo ma, allo stesso tempo, separato; a cui si sente simile, ma estraneo. È a partire da questo senso di separatezza che viene alimentato il desiderio di cogliere, avvicinare, capire, interpretare. Un paesaggio è sempre una interpretazione e, in quanto tale, sempre una creazione. Chiameremo «io» colui che desidera, e chiameremo «natura» il mondo che «io» desidera cogliere attraverso di sé, indipendentemente dal fatto che questo mondo sia rappresentato da un vulcano in eruzione (uno dei fenomeni meno addomesticabili dalla civiltà) o da un camion fermo in strada, di traverso, tra i corpi di fabbrica e le ombre delle ciminiere che Mario Sironi dipingeva e intitolava «paesaggi urbani» (quanto di meno naturale poteva avere in mente il pubblico nei primi decenni del secolo scorso).
Se «io» e «natura» sono la possibilità di una creazione, allora il paesaggio che ne nasce deve avere a che fare con l’arte – arte come tecnica, come prassi, prima che come valore estetico; deve essere un artefatto: una creazione dell’autore, che «mette tra virgolette» (come dice il grande fotografo Guido Guidi) un qualcosa di visibile, e così lo trasfigura: il giardinetto dei cani sotto casa, la sala d’attesa della stazione di Livorno, una nube di fumo che si alza in mezzo ai campi, il traffico nella tangenziale di Milano, l’anonima città ancora immersa nel sonno.
Il nostro prossimo laboratorio, il «Romanzo del paesaggio: Sublime contemporaneo», comincia a febbraio 2022. Il programma completo è qui e le iscrizioni sono aperte.