di Giulio Mozzi
Il cuore del cuore della città nella quale abito, Padova, è costituito dalle “piazze” (per antonomasia). Sono tre: piazza delle Erbe, dei Frutti, dei Signori. Circondano il palazzo della Ragione, comunemento detto Salone (perché l’interno è un’unica, enorme sala), iniziato a costruire nel 1218, già sede del Comune. In piazza dei Signori c’è la torre dell’orologio: la vedete qui sopra (fotografia di Danilo Rizzetto).
L’orologio (il meccanismo, intendo) fu progettato e costruito nel 1344 da Jacopo Dondi, d’allora in poi autorizzato a fregiarsi del nome di Jacopo Dondi dell’Orologio; andò distrutto in un incendio nel 1390, e fu prestamente ricostruito. Non so quanto il meccanismo attuale somigli a quello originario: ma, in fondo, non mi interessa.
Mi interessa il fatto che quell’orologio, così come possiamo vederlo oggi, mostra un tempo piuttosto diverso da quello percepisco io. Il giorno diviso in ventiquattr’ore anziché in dodici; le fasi lunari; i segni zodiacali; e poi: la verticale sulle 18, l’incastro di triangolo quadrato esagono al centro, che non so ben comprendere. Effettivamente, il tempo una volta era diverso. Ma era diverso tutto l’universo.
Oggi, mentre scrivo, sono le ore 06.09 di venerdì 2 marzo 2018. Il conto degli anni è su base religiosa: dalla presunta data di nascita di Gesù di Nazareth, che alcuni considerano il Cristo, il Messia, il Salvatore, il figlio di Dio, e quant’altro. Sulla storia delle ore ho idee piuttosto vaghe: so che la numerazione in base dodici ha le sue ragioni, l’idea che in un giorno ci siano 1.440 minuti – mentre i “salvati”, secondo l’Apocalisse, sarano 144.000 – mi fa pensare che ogni fine di un giorno sia “un’apocalisse” (non nel senso proprio di “rivelazione”, ma in quello vulgato di “fine di tutto”).
Però. Il nome “marzo” viene da Marte, il nome “venerdì” viene da Venere: dai pianeti, identificati con gli dèi, o forse dagli dèi identificati con i pianeti. E, a ripensarci, l’anno è sì contato dalla presunta data di nascita ec., ma il calendario gregoriano (da papa Gregorio xii, che lo introdusse nel 1582, cioè praticamente ieri, con la bolla Inter gravissimas) è pur sempre un aggiustamento del calendario giuliano (così detto da Giulio Cesare, che lo promulgò nel 56 a.C.: non in qualità di autorità civile, ma come pontefice massimo – si sa, peraltro, che per i romani antichi religione e stato si mischiavano parecchio). Quindi nella data odierna si sommano la tradizione grecolatina, e pagana, e la tradizione cristiana. Ma già domani (3 marzo 2018) è sabato: e il sabato, si sa, è roba israelitica, e la parola viene dall’ebraico shabbāt. Domani dunque saranno almeno tre le religioni – pagana, cristiana, istraelitica – a contendersi la definizione del mio tempo.

In quale universo, dunque, a prescindere dalle mie personali credenze, abito? In quello degli dèi naturali – il fulmine, la luna, la fertilità dei campi, il mare… – che vivono le avventure sull’Olimpo e dintorni, e non possiede (credo) miti finali ma solo il mito (originario) dell’età dell’oro? In quello del popolo che da secoli e secoli attende il Messia, e che con l’arrivo del Messia immagina una sorta di stasi del tempo, o semplicemente la fine di tutto? In quello del popolo che pensa che il Messia sia già arrivato, e da un pezzo, ma ne attende il glorioso ritorno (con millenarismi vari, eventualmente)? In quello di chi illuministicamente pensa che tutte queste sono fole inutili, se non dannose, magari oppio dei popoli, e semplicemente pensa che il tempo è oggi, domani, e poi si vedrà? Vivo in un tempo lineare o – come il Beato Angelico – in un tempo nel quale il passato (la cacciata dall’Eden) si ripresenta e si modifica nel presente (l’incarnazione)?
Il guaio è che ciascuno di questi tempi implica, o presuppone (a scelta), uno spazio diverso. Basti pensare a quanto ha faticato la chiesa cattolica a digerire l’eliocentrismo.

Ma che c’entra, potrebbe dire uno, l’universo con il paesaggio? Non possiamo, semplicemente, guardare ciò che abbiamo davanti agli occhi? Sì, certo, possiamo. Basta dimenticare tutta la nostra cultura (nel senso antropologico del termine), basta cancellare tutti i segni, i punti di riferimento, gli orientamenti istintivi che stanno impressi nel nostro corpo.


Provate solo a immaginare un universo nel quale “destra” e “sinistra” non siano quello che sono in questo universo qui. Questo universo qui, nel quale coloro che saranno salvati – secondo la credenza cristiana – siederanno alla destra del Padre (e non s’è mai saputo chi starà alla sinistra); nel quale quasi dappertutto (lo so: fanno eccezione l’Inghilterra, Malta, e forse qualche altro paese) le automobili tengono la destra; nel quale si legge da sinistra a destra; nel quale esistono, e sono casi particolari, i mancini (che peraltro, se non li si forza all’innaturalità, se la cavano con destrezza); nel quale si aggirano persone sinistre; e così via.
Uscite di casa. Guardate, qualunque cosa ci sia fuori di casa (anche il condominio difronte è un paesaggio). Osservate. Cercate di essere consapevoli di come si muove la vostra testa, di come si muovono i vostri bulbi oculari. Pensate agli altri pianeti, a come girano le stelle, all’aldilà, al leviatano, agli extraterrestri, alla tartaruga che sostiene il mondo, a come sarebbe tutto se la terra fosse piatta, ai sette giorni in cui fu creato il mondo, al big bang (a quella gigantesca scoreggia del nulla, come lo definì scherzosamente Margherita Hack): e, ancora, così via. Davanti avete sempre quel condominio lì: ma ogni volta è diverso, si sistema diversamente nel mondo.
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