[Nel corso del laboratorio “Raccontare il paesaggio”, edizione 2018, svoltosi ad Amelia, in Umbria, ma soprattutto nei mesi successivi sotto la guida di Fiammetta Palpati, le e i partecipanti hanno prodotto alcuni testi: non tanto testi descrittivi del paesaggio amerino, quanto – nei fatti – testi di riflessione sulla propria relazione col paesaggio, col guardare, col ricordare, col descrivere. Ne presentiamo qui una selezione, di cui questo è il primo. Sara Fiorillo – autrice anche della fotografia che vedete qui sopra – ha scelto di scrivere proprio un meta-testo, mettendo in scena sé stessa (“la ragazza”, “la fotografa”) nell’atto di fotografare. Non sembri una scelta bizzarra: come il comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso” richiede, ovviamente, che prima dell’amore per l’altro vi sia l’amore per sé stessi, così l’intenzione di osservare qualcosa che sta fuori di sé richiede l’osservazione di sé. Finché non conosciamo il funzionamento di noi stessi guardanti, l’atto di guardare resta confuso. Il programma di “Raccontare il paesaggio 2019”, che si svolgerà a Monghidoro, sugli appennini Bolognesi, dal 3 al 20 luglio, è qui. gm].
Introduzione
Uno: mi sono domandata se il processo del vedere potesse essere l’argomento di un racconto, e mi sono risposta di sì.
Due: mi sono chiesta se il processo del vedere per me fosse univoco, e mi sono risposta che è doppio.
Tre: mi sono interrogata rispetto a questa doppia natura, e mi sono risposta che consiste nell’intuizione del reale (vedere), da una parte, e nell’elaborazione dell’astrazione (pensare), dall’altra.
Quattro: mi sono preoccupata di come raccontarlo, questo doppio processo, e ho scelto una fotografa.
Cinque: perché una fotografa? perché una fotografa fa entrambe le cose: vede il reale quando si immerge nel mondo con la sua macchina fotografica, e pensa il reale quando prende le distanze dal mondo guardando le sue fotografie.
Sei: cosa vede la mia fotografa? intimi e minuziosi dettagli che consolano il dubbio perpetuo sul sapere completo.
Sette: cosa pensa la mia fotografa? che essendo la totalità di un paesaggio inarrivabile, è necessario diversificarla nei rapporti di fisicità e di prossimità tra le cose intorno a noi.
Un posto alloggio
«Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo».
(Jorge Luis Borges, da L’Aleph)
Fotografia numero 1.
Limoni dietro un albero spoglio.
Per scattare la prima fotografia della serie (1) «Giardino» (2), la fotografa si siede sul bordo del patio della casa. Il suo corpo è quindi posizionato sul confine tra il cemento e la terra. Di fronte a lei c’è un albero spoglio e dietro l’albero spoglio c’è un albero di limoni rigoglioso di foglie e di frutti. La fotografa li guarda. Sceglie l’inquadratura. Si alza e, dopo aver aperto i righelli del metro di legno, misura la distanza tra il gradino del patio e l’albero spoglio: 5 metri. La annota in un taccuino che tiene nella tasca sinistra degli short neri di jeans, insieme a una penna Bic nera. Dopodiché misura la distanza tra l’albero spoglio e l’albero di limoni: 4 metri. Annota anche questa. Torna a sedersi. Vuole che siano a fuoco sia l’albero spoglio sia i limoni. Calcola che la fascia a fuoco di qua e di là dall’albero spoglio va da 3.30 a 8.70 metri circa, e che quindi l’albero di limoni si trovi 15 centimetri oltre il limite. La ragazza, seppure insicura del fatto che il risultato possa corrispondere alle sue intenzioni, mette a fuoco l’albero spoglio e imposta il diaframma a f/7.1. La fotocamera regola autonomamente il tempo di scatto. La fotografa scatta.
La fotografia stampata risulterà avere una profondità di campo sufficientemente ampia da comprendere sia l’albero spoglio sia i limoni. Pertanto la ragazza saprà non soltanto di avere impostato correttamente la fotocamera, ma saprà anche di avere lavorato sulla corrispondenza tra il paesaggio naturale e la sua intenzione, ovvero di avere indagato un paesaggio che chiama in causa l’umano perché, decidendo di mettere ugualmente a fuoco il soggetto “lontano” (albero di limoni) e il soggetto “vicino” (albero spoglio), ha proiettato qualcosa di sé nel paesaggio (3).
(1) «Il paesaggio non è un dato ma è un processo» (Giulio Mozzi).
(2) Il giardino è: «Un territorio mentale di speranza» (Gilles Clement); «Luogo di verità e di pazienza» (Vittorio Lingiardi); «La più piccola particella e al contempo la totalità del mondo» (Michel Foucault).
(3) «Se una composizione di alberi, di montagne, di acque e di case, cui diamo il nome di paesaggio, è bella, non risulta tale per se stessa, ma per me, per la finezza che è mia, per l’idea o il sentimento che vi associo» (Charles Baudelaire).
Fotografia numero 2.
Lampione con arance dietro.
Per scattare la seconda fotografia della serie «Giardino», la fotografa si inginocchia per terra, appoggia i glutei sui talloni e traccia con il dito indice (4) una linea davanti alle ginocchia per fissare nello spazio la sua posizione (5). La ragazza risulta essere quindi poco più in basso rispetto a quando era seduta sul gradino di cemento, ma nettamente collocata dalla parte della terra. Davanti a lei c’è un lampione e dietro il lampione c’è un albero di arance rigoglioso di foglie e di frutti. La ragazza vuole che siano a fuoco sia il lampione (che è distante da lei pressappoco quanto lo era l’albero spoglio della fotografia precedente) sia le arance. Si alza e, dopo aver disteso i righelli del metro di legno, misura la distanza tra il lampione e l’albero di arance, che è di circa 2.23 metri. Mentre la annota nel taccuino calcola che le arance sono più vicine al lampione di quanto non lo fossero i limoni all’albero spoglio. Fa quindi riferimento a quel che ha già indagato nella fotografia 1, e non modifica le impostazioni della fotocamera. L’albero di arance dovrebbe rientrare con tutta evidenza nella fascia a fuoco. Torna a inginocchiarsi dietro il solco scavato col dito. Mette prima a punto la porzione di spazio fisico che l’obiettivo deve inquadrare, poi sistema il piano di fuoco sul lampione, quindi scatta.
La fotografia stampata risulterà avere una profondità di campo sufficientemente ampia da comprendere entrambi i soggetti. Pertanto la ragazza, consapevole di essersi posta dinanzi al paesaggio con la medesima intenzione della fotografia numero 1, cioè di avere voluto “avvicinare” il soggetto più “lontano” a quello più “vicino”, rifletterà sulla certezza con la quale ha costruito una relazione già conosciuta tra due soggetti. E deciderà, nella fotografia successiva della serie, di agire invece su una relazione tra soggetti ancora inesplorata (6).
(4) Nella «traccia del rastrello» si può riconoscere la presenza dell’uomo in un giardino (Victor Hugo).
(5) «L’esterno è l’unico punto fisso che posso riconoscere nel mio lavoro e di cui posso essere certo» (Daniele Del Giudice).
(6) Fabrizio Desideri sostiene che, nell’espressione della regolazione che si adopera quando si esplora un paesaggio, si compia un movimento che cerca di conciliare il conosciuto e lo sconosciuto, ovvero la sicurezza e l’eccitazione dell’inesplorato.
Fotografia numero 3.
Aiuola.
Per scattare la terza fotografia della serie «Giardino», la fotografa si sdraia per terra sul fianco destro e poggia il gomito. La sua attenzione si ferma su un soggetto vicino: un’aiuola. Dietro, più lontano, c’è un ulivo. Li guarda. Seleziona l’inquadratura. Traccia oltre il gomito un solco corto e dritto con il dito indice della mano sinistra, quindi fa lo stesso oltre i piedi scalzi, per fissare nello spazio l’inclinazione del suo corpo disteso. Si alza, cammina verso il patio, recupera il metro di legno, e dopo aver riallineato i righelli misura la distanza tra l’aiuola e l’ulivo: 1.20 metri. La annota nel taccuino dopo averlo sfilato dalla tasca sinistra degli short neri di jeans. Torna a sdraiarsi nella stessa posizione. La ragazza vuole ottenere una ridotta profondità di campo che attribuisca nettezza e nitidezza soltanto ai sassi dell’aiuola. Vuole invece, al contrario, che nettezza e nitidezza non vengano assegnate né al tratto di terra davanti al soggetto scelto né all’ulivo dietro ad esso (7). La tabella delle distanze stabilisce che per un soggetto ospitato a 1.20 metri dalla fotocamera si debba mettere a fuoco la fascia compresa tra 1.12 e 1.29 metri. La fotografa mette a fuoco. Sceglie un valore basso per il diaframma, che apre fino a f/4,5. Il tempo per un’esposizione corretta si assesta automaticamente su 1/125s. La ragazza scatta.
Nella fotografia stampata risulterà a fuoco, a distanza ravvicinata, soltanto il mucchio di 13 pietre dell’arco di circonferenza dell’aiuola compreso nella porzione di spazio fisico selezionata. Le pietre, benché diverse tra loro perché in parte arrotondate e in parte spigolose, risulteranno tuttavia simili tra loro per via delle proporzioni notevolmente più grandi, rispetto alle loro dimensioni reali, che avranno assunto a causa del punto di vista (8) dal basso dal quale sono state ritratte: risulteranno dei veri e propri ostacoli davanti agli occhi dell’osservatore. La striscia di terra davanti all’aiuola e l’ulivo dietro di essa risulteranno invece gradualmente sempre più sfocati, sempre più indistinti. La fotografia testimonia dunque il tentativo di conciliare vicino e lontano, secondo la sua propensione estetica, che davanti a un paesaggio che si profilava punteggiato di attrattori avrà esercitato una preferenza e una valutazione rispetto a come le cose percettivamente apparivano.
(7) Fabrizio Desideri sostiene che, mentre esploriamo l’ambiente, la nostra attenzione si fermi su determinati soggetti creando un territorio di “marcature affettive” che risulterà essere la mappa dei nostri soggetti evocativi.
(8) «Certo che c’è il punto di vista laddove ti fermi, perché non se ne può fare a meno del punto di vista» (Sabrina Ragucci).
Fotografia numero 4.
Arance, limoni, erba, casa.
Per scattare la quarta fotografia della serie «Giardino», la fotografa sta in piedi. Davanti a lei c’è un albero di arance e dietro l’albero di arance c’è un albero di limoni. Li guarda e valuta quale porzione di spazio assegnare a ciascun soggetto. L’inquadratura comprende, procedendo da destra verso sinistra (9), alcuni rami di arance in primo piano, l’albero di limoni e il declivio curvilineo del giardino in secondo piano, una casa sullo fondo. La ragazza decide che questa sarà l’immagine con più ampia profondità di campo di tutta la serie. Chiude pertanto il diaframma a f/16 ruotando la ghiera sull’obiettivo fino alla modalità scena «Paesaggio». Questa volta non calcola le distanze con il metro ma si limita a sistemarsi laddove l’inquadratura riesce a captare al suo interno tutti i soggetti che la fotografa ha scelto di lasciare entrare all’interno della cornice. Riduce infine la focale a 18mm per provare a mantenere tutto ugualmente nitido. Il tempo per un’esposizione corretta si assesta automaticamente su 1/125s. La fotografa scatta.
Sulla fotografia stampata risulteranno effettivamente a fuoco tutti i soggetti selezionati nei piani di composizione: il cerchio dell’arancia in primo piano, l’albero di limoni e l’erba rada lungo il declivio lievemente pendente del terreno in secondo piano, un lato lungo e un lato corto del rettangolo delle persiane chiuse e il vertice del triangolo isoscele del tetto della casa sullo sfondo. Questa fotografia risulterà essere quindi quella con la più ampia profondità di campo di tutta la serie, e pertanto quella in cui sarà più immediato riconoscere un’interazione tra gli elementi.
(9) Il fatto che la fotografa si muova all’interno dell’inquadratura secondo la direzione di lettura di un testo contraria a quella imposta dalla convenzione culturale, che va da sinistra verso destra, conferma che «il paesaggio nasce quando me lo racconto» (Fiammetta Palpati).
Fotografia numero 5.
Cedro del Libano.
La fotografa decide che il soggetto della quinta fotografia della serie «Giardino» sarà un cedro del Libano. Quindi muove qualche passo in avanti, si apre un varco tra i rami e si fa ospitare dentro il cono verde (10) e profumato. Guarda davanti a sé e si guarda intorno. Tira fuori dalla tasca destra il metro di legno, lo stira infilandolo negli interstizi tra i rami fitti, poggia sul tronco l’estremità opposta a quella che tiene nella mano destra e muove questa volta alcuni passi indietro fino a posizionarsi a 1.5 metri di distanza. Chiude il metro e lo inserisce nei due passanti per la cintura equidistanti dal bottone di metallo dorato. Sceglie l’inquadratura: le fronde l’attraversano e poi escono dalla cornice. Posiziona il diaframma a f/4.5. La fotografa vuole che la scena a fuoco all’interno di questa immagine sia soltanto l’esile tronco, che cade nella zona compresa tra 1.37-1.65 metri. Vuole invece che, al di fuori di quest’intervallo, i sottili rami legnosi e i mazzetti di foglie aghiformi risultino gradualmente sfocati. La macchina fotografica però non accetta le impostazioni predisposte: 1/125s e f/4.5. Probabilmente il sensore non sta registrando una quantità corretta di luce. La ragazza scatta comunque, pur sapendo che forse avrebbe dovuto allungare il tempo di esposizione.
Nella fotografia stampata risulteranno del tutto evidenti la messa a fuoco del tronco e lo sfocato delle fronde, ma l’immagine risulterà talmente sottoesposta da imporsi con eccessiva estraneità sullo stato d’animo della fotografa. Dopo avere osservato a lungo l’immagine, la ragazza constaterà infatti in quel paesaggio l’effettiva scomparsa del movimento di avanzamento del suo corpo per aprirsi un varco e andare incontro all’albero e l’eccessiva evidenza di una impaurita immobilità. La fotografa valuta pertanto che quel paesaggio così scuro non possa essere considerato la traduzione nello spazio (11) della sua esperienza, che era stata indubitabilmente di chiusura, per via delle punture degli aghi sul collo, e sulle braccia e sulle gambe nude, ma era stata anche di apertura, per via del profumo e della curiosità di abitare dentro la chioma di un albero. La ragazza quindi, ritenendo che in questo paesaggio non sia rimasta traccia della sua apertura al circostante, decide di rifare la stessa fotografia ma con impostazioni differenti (12).
(10) Nello studio sulle preferenze paesaggistiche di Rachel e Stephen Kaplan, oltre ai quattro elementi “generali” in grado di predire la preferenza (la “coerenza”, la “leggibilità”, la “complessità”, il “mistero”), vengono riconosciuti come elementi attrattivi importanti anche il verde e l’acqua.
(11) «Lo spazio estrae da noi e traduce le cose» (Rainer Maria Rilke)
(12) «Quello che porta a cogliere un paesaggio è un atto di coscienza» (Giulio Mozzi).
Fotografia numero 6.
Cedro del Libano, con correzione.
Per scattare la sesta fotografia della serie «Giardino», la fotografa si posiziona di nuovo dentro il folto cedro del Libano. E di nuovo guarda davanti a sé e si guarda intorno. Sceglie pressappoco la stessa inquadratura, senza cornice, con le fronde che fuoriescono dai margini. Si colloca come prima a 1.5 metri di distanza dal tronco. Anche questa volta vuole che sia a fuoco il tronco, che secondo la tabella dovrebbe cadere dentro la fascia 1.37-1.65 metri, e che il resto sia invece fuori fuoco. Posiziona il diaframma come prima a f/4.5. Allunga invece il tempo di esposizione che raddoppia a 1/60s. E a questo punto scatta.
Nella fotografia stampata risulteranno, come nella fotografia 5, del tutto evidenti la messa a fuoco del tronco e lo sfocato delle fronde, e l’immagine risulterà però questa volta risulterà correttamente esposta. La fotografa, infatti, riconoscerà nella nuova esposizione la sua esperienza reale, quella di apertura al circostante, ovvero quella relazione tra individuo e ambiente che si costruisce sull’equilibrio tra l’apertura e la chiusura, tra l’intimità e l’estraneità (13).
(13) Rainer Maria Rilke scrive: «Perché ti riesca l’esistenza di un albero, / gettagli intorno parte di quell’intimo spazio / che abita in te. Da ogni lato contienilo. / Da sé non si delimita. Solo se gli dà forma /la tua rinunzia si fa vero albero». Secondo Vittorio Linciardi, la “rinunzia” è quell’apertura al circostante per cui si possa instaurare, in un unico movimento, la relazione ‘psiche nel paesaggio e paesaggio nella psiche’.
Fotografia numero 7.
Tomba.
Per scattare la settima fotografia della serie «Giardino», la fotografa rimane in piedi e china il capo per guardare verso il basso. Sotto i suoi occhi c’è un cerchio di pietre irregolari con una mattonella nel mezzo, e tra i lati del quadrato (14) di ceramica e la circonferenza rocciosa, procedendo in direzione oraria, ci sono nell’ordine il bocciolo di una violetta poggiato su un dischetto di cotone impolverato, un sassolino rotondo prossimo a una piuma di plastica verde, una piccola ciotola rustica di ceramica azzurra piena di acqua (15) torbida fino all’orlo, un Gormita alto 5 centimetri circa con analoga apertura alare, un mucchietto di briciole di biscotto (16). La ragazza guarda l’assemblaggio. La distanza della fotocamera da terra è poco inferiore alla sua altezza. La fotografa vuole che in questa immagine con ridotta profondità di campo siano perfettamente a fuoco sia la combinazione dei soggetti che sono stati adagiati sulla terra sia la scritta in stampatello elementare pitturata sulla mattonella: «Caro Geppi ti / vogliamo tanto bene noi / camminiamo tu continua a volare / rimarrai sempre / nei nostri cuori / D L V E» (17). La ragazza imposta la distanza a 1.60 metri circa. Mette a fuoco. Apre il diaframma a f/2.8 per fare entrare molta luce. La fotocamera regola autonomamente il tempo di scatto. La fotografa però non scatta. Smette di guardare attraverso la fotocamera e guarda la scena a occhio nudo. Solo dopo un paio di minuti riprende a guardare attraverso il mirino. Infine scatta (18).
(14) Lo psicologo della visione Richard Latto usa l’espressione «primitivo estetico» per sottolineare che anche la visione più elementare – di un albero, un quadrato, una retta – sia un processo conoscitivo ad altissima specializzazione.
(15) «L’acqua toglie staticità anche se può creare degli specchi» (Andrea Zanzotto); v. anche nota 9.
(16) Donald Woods Winnicott chiama «transizionale» l’oggetto che per il bambino rappresenta il possesso e il legame con la figura materna, che non appartiene né alla realtà interna né alla realtà esterna, ma si colloca – dopo essere stato simultaneamente trovato e creato dal bambino per tollerare una separatezza – in una zona intermedia dove avviene la negoziazione tra la realtà interna e quella esterna, secondo un rapporto di mutua dipendenza tra interno ed esterno. Si svilupperebbe quindi, proprio in questa zona, una soggettività capace di mediare tra il proprio Sé (interno) e le sensazioni (esterne) che l’esperienza suscita, tra i propri pensieri e l’oggetto a cui si sta pensando. Quel che ne consegue è dunque un rapporto in cui nessuno dei due elementi è causa dell’altro in senso lineare, bensì un rapporto in cui ciascuno rende possibile l’altro.
(17) «Eterotopia per eccellenza, luogo di convivenza di più spazi immaginari, il giardino è una contestazione mitica e reale dello spazio in cui viviamo. Come l’isola e l’oasi, e come il cimitero (che è il giardino dei morti), ha l’aspetto magico degli spazi separati e conchiusi» (Vittorio Lingiardi).
(18) Il paesaggio «ha perlomeno un punto di insondabilità, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto» (Sigmund Freud).
Appunto
Su un foglio, un appunto della fotografa: «Tranne che per la fotografia numero 4, la distanza focale dell’obiettivo è sempre stata impostata a 50mm, cioè a 45 gradi circa, per ottenere una visione monoculare del tutto simile a quella degli occhi umani che vedono le cose».