[Nel corso del laboratorio “Raccontare il paesaggio”, edizione 2018, svoltosi ad Amelia, in Umbria, ma soprattutto nei mesi successivi sotto la guida di Fiammetta Palpati, le e i partecipanti hanno prodotto alcuni testi: non tanto testi descrittivi del paesaggio amerino, quanto – nei fatti – testi di riflessione sulla propria relazione col paesaggio, col guardare, col ricordare, col descrivere. Ne presentiamo qui una selezione, di cui questo di Costanza Lindi è il terzo. Nel suo procedere frammemtato, per “istantanee”, e nel restituire parcelle di percezione, mi ha ricordato una poesia del poeta elisabettiano John Donne, The Broken Heart (Il cuore spezzato: il testo originale è qui): “[…] che cosa avvenne / Del cuore mio, quando ti vidi per la prima volta? / Portavo un cuore entrando nella stanza, / ma uscendo dalla stanza più nulla possedevo. / […] L’Amore, ahimè / al primo unico soffio lo infranse come vetro. / Ma nulla può accadere al nulla, / né alcun luogo può essere vuoto. / Per questo penso che il mio petto conservi / ancora quei frammenti, benchè non siano più uniti. / E così, come ora gli specchi infranti mostrano / centinaia di volti minori, così / i frammenti del mio cuore possono scegliere, desiderare e adorare”.
Il programma di “Raccontare il paesaggio 2019”, che si svolgerà a Monghidoro, sugli appennini Bolognesi, dal 3 al 10 luglio, è qui. gm].
Introduzione
Istantanee di intuizione. Se faccio un’immagine in frantumi, mi domando poi cosa mi resti.
Parto per scomposizione separando gli elementi che arrivano alla mia vista. Luce spazio tempo. Dimensioni misurabili e concepibili.
E poi le cose.
Procedo verso la rappresentazione e poi il racconto.
Tutto nell’istante sufficiente per raccogliere quante più intuizioni possibili, che da dietro agli occhi arrivano all’analisi e all’elaborazione che manipola il fotogramma.
Nessi logici dell’istante e istantanei a loro volta.
Manipolo le cose quindi, perché per capirle voglio entrarci dentro e inzupparmi e vestirmi.
Dunque ci metto il corpo, come dimensione necessaria per raccontare, unità di misura indispensabile per la messa su carta.
Istantanee sul risveglio
So dove si concentra il tatto, quelle mattine di domenica in cui non esisto ovunque, ma sono in un contenitore che mi calza a pennello. Tra lenzuola di seconda mano, perché, scomposta in qualsiasi altro momento, non saprei procurarmene di migliori. Sarei capace di sostare immobile senza che accada nulla, perché depenno quelle ore in cui mi riassemblo.
Ieri sera sei rimasto in piedi fino a tardi nella tua penombra di click del mouse, con i miei piedi accanto sotto la scrivania, ancora nelle scarpe. Facevo cose con lentezza assecondando l’attesa più che il sonno, come a crearti un vantaggio. Hai ancora addosso le mie braccia che ti sei portato via stamattina, quando sei uscito presto. Mi raggiungeranno mentre dormiamo senza scosse giustapposte.
Scopro, nottetempo di avere la pelle secca sul mento, rimasto incollato a quel prurito di quando al telefono, in pausa pranzo, credo di concentrarmi sulle parole che sento. Il gesto delle unghie sulla mandibola è stato effetto dell’irritazione nella mia testa, mentre, in questa fase, si rivela causa.
Nel frattempo i polpastrelli delle mie dita sono rimasti in macchina, sull’ultimo ricordo della digitopressione per chiudere il finestrino. Inizia a far freddo penso, mentre mi corico strofinando le mani tra loro.
Il labbro inferiore rimane sbeccato come il bordo di una tazza da tè. Mentre do l’ultima soffiata di naso prima di coricarmi e appoggiare il fazzoletto sul comodino, mi strofino la bocca che è rimasta ancora arrotolata su se stessa, dall’ultima volta che ho ricordato la scadenza della bolletta dell’acqua. L’ultima cosa che ho mangiato rimane sulla lingua fino al nuovo lavaggio d’azzeramento; sul guanciale procedo al restauro del labbro inferiore che ho assaggiato e poi rosicchiato aiutandomi con le mani.
Non prima delle nove di mattina, la domenica, ritrovo l’ordine di tutte le vertebre cominciando dalla più alta e poi a scendere fino alla coda, perché sono lunghissima come la fessura che mi tocca ogni perimetro e che mi calza come guaina, senza temperatura alcuna.
Ogni estremità riconosce la crosta del suo fuori, perché immobile mi concedo il lusso di ignorare tutto tranne l’involucro della mia pelle, della coperta, e poi della stanza e della luce, e poi del suono e dell’odore di una domenica mattina, in cui il gesto è contenuto e trattenuto in un pacco, perché devo osservare la foschia dalle fessure delle tapparelle.