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Recanati non esiste

Recanati non esiste

di Lidia Massari

Lidia Massari, instancabile viaggiatrice critica, con Recanati non esiste resta nella propria città. Il testo di Massari, ispirato dichiaratamente e sin dal titolo al geniale Esiste Ascoli Piceno? di Giorgio Manganelli (articolo uscito su una rivista marchigiana negli anni ’80 e ripubblicato da Adelphi, unitamente a 10 cartoline di Tullio Pericoli, nel 2019) ne ribalta tuttavia la premessa. Se Ascoli Piceno (città poco conosciuta e poco immaginata) era, per il lettore italiano medio, un nome sulla carta geografica, un nome da mandare a memoria tra quelli delle provincie italiane, e un vuoto di luogo, Recanati è invece un nome pieno, un nome saturo di racconto: il racconto della poesia e del poeta. Divenendo il tempio della celebrità la città ha finito con il voler assomigliare al set della creazione poetica. Dunque raccontare Recanati cominciando col negarne l’esistenza è, per l’autrice l’unico modo (o almeno l’unico che non somigli all’ennesima – giustificata ma, ahimè, trita – lamentazione sullo snaturamento dei luoghi a beneficio memoriale e turistico) per l’esercizio del suo occhio critico. Ma questo testo – nato in seno al nostro laboratorio «Il tracciato e la città» tuttora in corso di svolgimento – apre anche una breccia nella convinzione dell’esistenza dei luoghi tout court – cioè al di fuori di una esperienza circoscritta di stanziamento, uso, movimento e, nondimeno, di rappresentazione simbolica come potrebbe essere una qualsiasi forma di narrazione: una mappa come un ricordo, un ricordo come un sogno. [fiammetta palpati].

Non è che non si voglia scrivere della città di Recanati. È che non si può; nessuno potrebbe, dato che l’esistenza di una città così nominata dovrebbe prima essere dimostrata; poiché il fatto che una mappa –satellitare poni caso – mostri un territorio collinare definito da due fiumi che scorrono paralleli verso il mare Adriatico (esempio da manuale di deposito alluvionale), nonché degli insediamenti abitativi riconducibili ad epoche lontane fra loro, diciamo – a spanne –, dal Medioevo ai giorni nostri, e persino una piazza che appare senza ombra di dubbio come il centro del centro cittadino, ebbene, tutto ciò non autorizza a pensare che la città che chiamano Recanati esista davvero.

   Come si può parlare di una città che non ha nemmeno un nome? Ricina era una grande città romana, ma stava a quasi venti chilometri da qui, e venne distrutta dai Goti; e non è certo il legame fra quei profughi e l’atto fondativo della città. Se proprio si deve pensare a fondatori romani, c’è una città romana proprio qua sotto, a tre chilometri, ma si chiamava Potentia. E comunque, che vuol dire Recina? Chi propende per Venere di Erice, chi a una radice slava, quella della parola “fiume”, come in Rijeka; e, in dialetto siculo, “andare a recanati” significa vomitare – signora, che busta sceglie? la uno, la due o la tre?

   Come si può parlare di una città senza partire da un centro? Ma Recanati un centro non ce l’avrebbe… No, mi correggo, eccolo, è chiaro dai colori: rosso mattone, palazzi antichi; condomini anni Settanta dai colori improbabili (e ancora più brutti dopo i cappottini fatti col 110%); mattoncini facciavvista della villettopoli pedecollinare. Tuttapposto: borgo normodotato, il cui centro storico si snoda intorno alle tre vie principali che si rincorrono sul crinale del colle, formando una sorta di “L”, a metà del lato lungo della quale si apre la grande piazza circolare al cui centro campeggia la statua, cupissima, del più illustre cittadino di Recanati, quello che i local chiamano «il pupo». Ma la bella piazza circolare lastricata di fresco col centro non c’entra: l’hanno inventata squartando il sagrato della chiesa di san Domenico, abbattendo il vecchio palazzo comunale, isolando la cosiddetta torre del borgo, innalzando un nuovo, gigantesco municipio in mattoncini e pietra calcarea, dallo stile eclettico, dal colore che vira al rosa, impresa mirabile costata quelli che oggi sarebbero miliardi, e tutto per onorare per i suoi primi cento anni il povero Buccio, Muccio, Giacomino nostro, che, ingobbito nel suo mantello, sembra che abbia voglia di piangere, smarrito in mezzo a una piazza che ai tempi suoi nemmeno c’era.

   Ma lasciamo queste vecchie storie noiose: bisogna spiegare bene perché si sta cercando di evitare il compito gravoso, insopportabile e assurdo di scrivere di una città che non esiste. Gli abitanti di Recanati, questa è la verità, da quello che tutti chiamano “centro”, fuggono come da una disgrazia; gli unici luoghi davvero attrattivi, quelli nei quali si formano talora lunghe file e, di fuori, i capannelli dei pensionati, per chi imbocca corso Persiani (senso unico) in macchina sono: le poste, la banca (ex Cassa di risparmio della provincia di Macerata ex Bancamarche [implosa] ex Ubi). Per il resto, non ci sono negozi, i bar sono tre, uno adiacente all’altro, sulla piazza, indistinguibili nell’offerta comune di taglieri di prodotti tipici, vincisgrassi e insalatone. Il centro storico è una voragine che inghiotte le velleità commerciali di chi periodicamente ci prova, a fare una vetrina di abbigliamento o del pregiatissimo olio di oliva monocoltura “raggia”.

   Per contro, puoi trovare i cittadini di Recanati affollare in orario 7-8, 16-17 (inverno), 18-19 (estate) la circonvallazione che cinge il centro. Questa è una strada con diversi nomi (via Cesare Battisti, via Carducci, viale Nazario Sauro, ex statale 77 della val di Chienti [lo vedi che Recanati non esiste? Non c’è nessun fiume Chienti, qui, quello sta molto più a sud, divide Civitanova Marche dalla provincia di Fermo]), simile a un nastro che circonda con poche deviazioni la vecchia cinta delle mura, di età rinascimentale. Data la natura sottile del centro (possiamo visualizzarne una parte immaginando un rettangolo molto slanciato, con due lati lunghissimi e due ridicolmente corti), questa strada ha uno sviluppo di circa quattro chilometri, ma per passare da uno dei lati lunghi all’altro le distanze sono minime, anche meno di cento metri. Se invece si ha la sventura di guidare un veicolo nel centro di Recanati, i sensi unici costringono il guidatore a percorrere volute barocche per andare da un A a un B che a piedi distano non più di tre minuti. Ma i cittadini di Recanati non hanno senso pratico, e invece di scegliere la via più breve, soprattutto negli orari su indicati percorrono la via delle mura (familiarmente “le mura”), muovendosi al trotto, al galoppo, al passo (spanciando), indossando leggins pesanti e kway (soprattutto nelle serate tiepide della prova costume), occhiali da sole e cuffiette, magliette sintetiche dai colori fluo, affollando i marciapiedi nell’uno e nell’altro senso di marcia, urtandosi, salutandosi a denti stretti, di corsa – mica puoi fermarti –, ingenerando un vorticoso moto centrifugo che svuota la piazza e le vie circostanti, ingloba via via correnti e camminanti e poi li fa schizzare per la tangente e raggiungere alle 20 spaccate il desco familiare.

   Qualunque sia la stagione, alle otto di sera tutte le strade si svuotano, rimangono fuori disadattati e turisti. Si dovrebbe parlare di questo vuoto? Non credo, e comunque non voglio.

   C’è un’ultima ragione che impedisce a chiunque abbia un minimo di senno di parlare di Recanati, la città che può vantarsi di essere finta da più di cent’anni. La signora Recanati, nobile anziana con un glorioso passato, potrebbe ricordare i giorni in cui contendeva ad Ancona il dominio della parte centrale dell’Adriatico, giorni in cui contrattava alla pari con la superpotenza veneziana che qua davanti doveva passare, se voleva andare a mercanteggiare in Oriente; potrebbe ricordare la fiera che durava più di una settimana, e che insieme a quella di Napoli era una delle più importanti d’Italia; potrebbe ricordare il boom economico del Settecento, quando per la prima volta proprio qua, nel maceratese, si sperimentava l’innovazione dell’erba medica, e i profitti agricoli ebbero un picco altissimo, e sorsero ovunque splendidi teatri in miniatura (ce n’è uno anche qua, e quando un qualunque recanatese vede la Scala non può che notare che è uguale al teatro Persiani, solo un po’ più grande); potrebbe ricordare con un po’ di dolore di aver perso Loreto, che era una sua contrada, e la favola stupefacente del trasloco della casa dell’Annunciazione (che è vera: la casa, dico, per l’Annunciazione ci vuole fede). Invece no. La nobildonna, rimasta orfana del suo pargolo più dotato, mai più il suo corpo sarà riportato alla madre patria, tu non altro che il canto avrai del figlio … no, scusate, ho sbagliato volume dell’antologia, inizia un lunghissimo lutto non ancora scemato che già dalla fine dell’Ottocento, quando il figlio era famoso soprattutto per versi dalla discutibile sintassi come “dammi, o ciel, che sia foco agli Italici petti il sangue mio”, la porta a conciarsi così come suo figlio l’aveva immaginata nelle sue trasfigurazioni; un make up che vorrebbe farla assomigliare alla sé stessa giovane madre dello sfortunato figliuolo ma che finisce, come gli interventi estetici mal riusciti, per farla diventare una quinta teatrale buona per mettere in scena le descrizioni borghigiane dei canti ad usum di scolaresche distratte e prof di italiano in pensione che hanno visto il film di Martone.

  Ecco, dovrei parlare di questo buco nero dai ridenti dintorni, dove se ci nasci o ci precipiti vuoi solo scappare, e non riesci, e conduci la tua vita da mosca rimasta appiccicata alla carta moschicida? No, grazie, preferirei di no.

La città vuota e la luna secondo l’intelligenza artificiale.