[In questa rubrica, dedicata a Raccontare il paesaggio, cercherò di raccogliere delle brevi narrazioni – descrizioni, osservazioni, aneddoti – sui luoghi che ospiteranno il laboratorio. Per familiarizzare. Comincerò dalle terre di confine, o limitrofe, entro le quali – o dalle quali – Amelia e i colli Amerini si definiscono per differenza, propagazione, emanazione. La fotografia qui sopra è di Roberto Della Portella. fp].
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Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio
qui volgere le spalle.
da Ormai, A. Zanzotto, Dietro il paesaggio, 1951
Cinque strade portano ad Amelia, e cinque, naturalmente, se ne allontanano; si innestano in reti maggiori – sulle regionali, sulle statali; la sesta va a Macchie, e lì finisce – ma qui si entra in una specie di leggenda paesana che, per ora, tengo da parte.
L’arrivo meno impressionante, meno scenografico, è proprio dall’Ortana, sulla quale viaggiavamo, perché conduce direttamente al livello della porta principale, e non offre, come le altre strade, una visione d’insieme – da lontano – della città costruita sul colle, immersa nel suo paesaggio, nelle sue forme più seduttive, più metaforiche (come accade, per esempio venendo da Orvieto, o da Giove, o da Todi, o da Narni). Sicché prima – prima di questo impatto, che è un impatto soprattutto con le mura – c’è la possibilità di capire cosa sia Amelia – oggi – senza venir sopraffatti dalla nostalgia di quello che deve essere stata.
Continuavamo a salire, ma una pendenza lievissima – calavano i giri del motore, calava il rumore – come se si fosse raggiunta la giusta altezza e non si sentisse più la fatica del cavarsi dal suolo. Non è questo in fondo una collina? Un sollevarsi un po’ – non troppo da sentire le vertigini ma a sufficienza da apprezzare la forma della terra – e inoltrarsi. Curvare. Scivolare. E più la strada si metteva in piano, più i segni recenti dell’abitato si moltiplicavano. Vedevo il ciglio incresparsi, sollevarsi in casette rustiche o con ambizioni urbane – il cancelletto pedonale e il balcone con la ringhiera, la saracinesca del garage al piano terreno, i carciofi che sbucano tra le maglie dell’inferriata, su un abbozzo di marciapiede – e poi tornare a diradarsi attraverso le stradicciole sterrate, lungo i declivi e le coste fino a coincidere con i vecchi casolari con la pietra rinzaffata dalla malta fresca, le gabbie per i conigli, le scale poggiate ai tronchi d’olivo. Finché queste soluzioni di continuità, questi vuoti e pieni, non furono sostituiti dal tutto pieno della viabilità urbana.
Ricordo la caserma della forestale, blindata, e con le tapparelle abbassate; il cartello “vendesi”, storto, appeso al cancello della villa ottocentesca, vicino ai fiori per un morto stradale; ricordo il luccichio delle canale di rame nell’area dello smorzo; ricordo me stessa affacciata dai “parcheggi blu” sul parchetto della ludoteca – e i miei pensieri; il cartello rosso fuoco dei Fichi Girotti; le macchinette mangiasoldi nel retrobottega del bar; la sanitaria dove cercammo di ricomprare il ciuccio che mio figlio aveva lanciato – come un’àncora, dal finestrino – e che trovammo poi alla Coop.
Delle mitiche mure – famigerate per bellezza, vetustà e possanza – che circondano Amelia quasi per intero – le mura, in quell’ora crepuscolare – e che ci trovammo dispiegate di fronte come un enorme fondale chiaro su cui scorrevano orizzontalmente, per la lunghezza, le sagome delle automobili, in un senso e nell’altro, ricordo una prospettica fuga bluastra, verso destra – che è poi l’oriente – da dove arrivava la sera, l’ombra di un monte già scuro di suo, e i tigli dei giardini pubblici (e che si confonde con un crepuscolo di inizio estate quando i tigli sono fioriti e l’umidità ne intensifica il profumo); e, dal lato opposto, verso occidente, una striscia giallognola, ancora assolata, e solennemente alberata di pini alti e diritti: la strada per Orvieto. In pratica un’impressione in cinemascope. Dal mezzo veniva un fascio di luce rosa salmone – un tono che immagino scaturisse dal sovrapporsi dei mattoni e del travertino con cui è costruita la porta, e dei fari che uscivano, a turno, tra uomini, donne, carrozzine. Porta Romana.
E dove altro avrebbe potuto scaricarci la strada da Roma?
Era tardi e mio figlio piagnucolava per la mancanza del ciuccio. Di questo arrivo ad Amelia non ricordo altro: un incrociarsi di vie, mezzi meccanici, scopi, segnali, luci.
Solo due anni dopo vidi le mura nel loro nitore quasi rifrangente. Enormi. Ciclopiche, appunto. E che si continuavano in senso circolare raccogliendo e definendo l’intera forma della collina, insieme alla roccia viva del lato bagnato dal fiume, risalendo come una spirale, una chiocciola calcarea, il pendio a contenere le spinte centrifughe di orti, cortili, chiostri, cammini di ronda, porte e dogane, fino su. La sommità con la cattedrale, la torre e la chioma del pino di fianco al tetto dell’episcopio – una falda leggera per il sole e il vento.
Era una domenica mattina accecante per quanto era limpido, asciutto e inesistente, il cielo. Ed era un giorno di lutto.
Era stato un inverno piovosissimo dopo alcune estati molto secche, a cominciare da quella, nefasta, del 2003. E una parte delle mura, sul versante est – Nocicchia mi disse la titolare dell’agenzia immobiliare – era crollata.
Le mura pre-romane. La vetustà non basta.
Le mura poligonali, allora. Ma poligonali le definisce solo nel reticolo di linee spezzate chiuse che è la loro faccia-vista, nell’intersecazione di bordi dritti, geometrici ma irregolari che garantisce la staticità senza uso di malta cementizia, o di cunei, ma con il semplice – semplice di fa per dire – incastro. Mura a secco. No, non basta ancora. Occorre aggiungere megalitiche per apprezzare il peso, lo spessore – l’enormità dei singoli blocchi. E ancora non è sufficiente poiché nell’uso comune le mura si dicono ciclopiche. E, persino, pelasgiche. C’è bisogno, in altre parole, di mito.
In oltre duemilasettecento anni di esistenza (la parte più antica delle mura si trova nella parte alta della città, intorno all’acropoli, e risale al VII secolo a.C.) esse hanno subito, come è naturale, ampliamenti, riparazioni e, soprattutto, consolidamenti. Ciononostante quel crollo fu avvertito come inaspettato e inaudito. Io lo appresi mentre bevevo un cappuccino, al bar. La gente ne parlava come si parla di un omone che non ha mai preso un raffreddore e poi tutto a un tratto cade ammalato, di non si sa cosa. E lo si vede deperire sotto i proprio occhi, e si riesce solo a scuotere la testa, e parlarne fuori dalla porta.
Naturalmente era già cominciato il balletto degli appelli, delle accuse, delle richieste di fondi, e degli scarica barile tra le parti politiche, l’amministrazione, gli enti locali. Ma questo è naturale. Io, invece, vorrei potervi dire dell’incredulità che avvertivo anche tra i più cinici. La percezione improvvisa di un’alterazione e di una vulnerabilità che io, avventizia, non provavo.
C’è tutto un insidioso sistema di ricordi e di rimpianti nel quale ci si immette, quando si entra in contatto con i luoghi e con la memoria. Un flusso nel quale prima o poi ci si getta. Interrompendo la continuità del noi con l’io. Per esempio: io non avevo rimpianto della pineta accanto alle mura perché quando sono arrivata c’era già il parcheggio di breccia e gli autobus blu di Umbriamobilità. Diversamente rimpiango un po’ la fontana coi pesci rossi dei giardini pubblici perché ho fatto in tempo a farci giocare i miei figli. Anzi. Davanti a quella fontana – che poi è stata rimpiazzata da un grosso fiore stilizzato sul cui stelo pare non sia possibile, ai bambini, arrampicarsi e farsi male – mia figlia, che nel frattempo era nata e camminava, è stata difesa per la prima volta da suo fratello maggiore dalla prepotenza di un altro bambino.
Molti amerini della mia generazione, o di quella appena precedente, rimpiangono i Giardini d’Inverno. Che nome evocativo. A ridosso delle mura, dalla parte della valle del Rio Grande esisteva – esiste ancora – una morbida radura erbosa, che per la sua fortunata esposizione riceve fino all’ultimo raggio di sole. Pare che i bambini, durante l’inverno, giocassero lì, con i loro calzoni corti e i cappottini abbottonati, a godersi un bene gratuito prima di tornare nelle case un po’ fredde. L’erba è verdissima. I volontari l’hanno rasata. L’amministrazione ha trovato i soldi per una manutenzione ordinaria e per una staccionata. L’effetto ambrato del sole sulla mura, e dell’erba che ondeggia e fruscia su questo fondale, è struggente – vi consiglio di fermarvi, di fare una fotografia a quel colore e poi di risalire il sentiero tra cespugli e olivi, fino a Porta della Valle. Da lì sgattaiolate – tanto la porta è aperta – nel giardino di Sant’Angelo poco più avanti, a sinistra. È il più grande orto terrazzato di Amelia. Raccomando di affacciarvi – cinti e protetti dalla città – e di guardare in basso, la gola del torrente che taglia lo scoglio tra le macchie di leccio, di carpino, di olivo e poi davanti a voi – tra i colli muschiosi, roridi – il paesaggio amerino.
Ma i Giardini d’Inverno continuano a essere ignorati. Ci vanno ogni tanto gli adolescenti, quando non vogliono essere visti, senza memoria, né senso di colpa.
Ma allora, Fiammetta, che vuoi dire? Che neanche i luoghi si possono rimpiangere? Che non è esistita per la città – la città di Amelia – un’età dell’oro da rimpiangere?
Non so. Io ho sentito persino rimpiangere gli anni Ottanta.
Francamente sto pensando ad altro. Mi domando se sia meglio ancorarsi alla roccia, radicarsi più a fondo nella crosta. O alleggerirsi. Lasciarsi fluttuare sulla superficie.
* * *
Forse, se posso a questo punto intervenire, ancora, l’ideale sarebbe lasciarsi fluttuare con le foglie mosse dal vento e tenere le radici ben ancorate alla terra, dura come una crosta, come l’albero in primo piano della foto.
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Ci mancherebbe che non si potesse intervenire.
Non lo so davvero e rinuncio all’ideale. Ma è una possibilità.
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