di Giulio Mozzi
Effettivamente, in un certo senso, quello che vedete qui sopra non è “un Magritte”: è “un [ritratto fotografico di] Magritte”, dove per “Magritte” s’intende “René Magritte”, noto pittore di scuola surrealista. Ma, in un altro senso, quello che vedete qui sopra è effettivamente “un Magritte”, così come di un rampollo di una certa famiglia, es. della famiglia Mozzi, si può dire che è “un Mozzi”. Se vi interessano le figure retoriche, in questi comunissimi modi di dire ce ne sono tre o quattro, e di quelle importanti: ma non vi tedierò su questo. Vi tedierò, invece, con una breve riflessione sulla didascalia.
La didascalia posta sotto o accanto a un quadro o a una fotografia dovrebbe, secondo il senso comune, dire che cosa c’è dentro il quadro o la fotografia (e, accessoriamente, chi ne è – se noto – l’autore). Per esempio:



I tre esempi sono diversi. Che la Madonna con bambino rappresenti una Madonna con bambino, è facilmente comprensibile a pressoché tutti gli occidentali; che il Paesaggio urbano rappresenti un paesaggio urbano, idem (ma la Madonna con bambino è sicuramente quella Madonna lì, mentre il paesaggio urbano non è identificato: potrebbe essere Milano, o Torino, o Dresda, chi lo sa); che Susanna e i vecchioni rappresenti Susanna e i vecchioni, forse un po’ meno (non sapete la storia? Basta Wikipedia). Ma, come a tutti è noto, fu il buon René Magritte a mettere in crisi il ruolo della didascalia, incorporandola in alcuni suoi quadri e affidandole un ruolo paradossale:

(Lo so, vi aspettavate la pipa. Ebbene, non c’è solo la pipa). (E: quale didascalia si può affiancare a questo quadro?).
Quando vado in giro per i miei corsi, e nei momenti morti del viaggio mi scappa di fare qualche ingenua fotografia, mi diverto spesso a fare facili giochi di questo tipo. In particolare, mi diverto a presentare luoghi molto urbani come se fossero tutt’altro che urbani. Qualche banale esempio:




E’ fin troppo facile, direte voi. Ebbene sì: è facile. Ma lo scopo di questo articoletto è solo quello di ricordarvi che, ove ci siano un testo e un’immagine, o un’immagine e un testo (le gerarchie possono variare), il rapporto tra immagine e testo o testo e immagine non è necessariamente di pura e semplice “ricopertura”. Certo: nei miei giocosi esempi (nei quali è il testo ad agire sull’immagine: ma può darsi, almeno teoricamente, anche il caso contrario) c’è sempre un elemento (un colore, una forma vagamente simile a un’altra forma ec.) che connette il testo all’immagine (trasformando dunque l’immagine, ed è ancora retorica, in una sorta di metafora). Ma potrebbe anche essere diversamente: potrebbe non esserci nessun rapporto (o almeno nessun rapporto individuabile dal lettore, il che è quasi lo stesso) tra testo e immagine.

Così come la didascalia può sostanzialmente rinunciare a dire alcunché sul “contenuto”, e suggerire piuttosto un aspetto formale,

o può semplicemente alludere ai “materiali” dei quali è fatta l’opera:

(anche se si potrebbe discutere all’infinito, a proposito di Burri, se Sacco e rosso indichi appunto i “materiali” o il “contenuto” dell’opera).
Certo, la didascalia può anche cercare di sottrarsi a questo lavoro di risignificazione dell’immagine. Ma siamo sicuri che sia possibile? Temo che anche la più sobria delle didascalie – per esempio, in calce a un ritratto, nome del ritrattato e sua professione – possa produrre sensi imprevedibili:

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Un pensiero riguardo “Esercizi per l’esplorazione del paesaggio, 25 / Il potere della didascalia”