L’artista pop (quasi l’inventore del pop, si potrebbe dire) Andy Warhol produsse molte opere nelle quali usava, in diversi modi, oggetti o immagini già esistenti. I suoi famosi ritratti, infatti, da Sofia Loren a Mao Tse-Tung (o Zedong, come si usa scrivere oggi), non sono altro che fotografie solarizzate con colori applicati: e, trattandosi spesso di celebrità, e di fotografie a tutti note (nel caso di Mao, di immagini ufficiali), è inevitabile che la memoria del guardante vada non solo alla persona rappresentata, ma anche a quella specifica fotografia adoperata (o “trattata”, come certi dicono) dall’artista. I suoi quadri rappresentanti scatole di detersivi, barattoli di zuppa o bottiglie di bibita scura gassata non sono forse rappresentazioni di rappresentazioni, ma sono – scusate le parolacce – risignificazioni di oggetti già di per sé significanti.
Ma questa pratica non appartiene solo all’arte pop. La celebre descrizione della peste in Atene che si trova nelle Storie di Tucidide era ben presente (e si vede, e i filologi ci hanno speso sopra anni di fatiche, producendo ponderosi volumi) a Lucrezio quando scriveva il De rerum natura; non conosceva la seconda (i manoscritti furono ritrovati più tardi), ma la prima sì, Boccaccio quando scriveva il prologo del Decamerone; e Alessandro Manzoni, quando si cimentò anch’egli con la peste, le conosceva tutte; per tacere di Albert Camus…
Ovviamente ciascuna di queste “riprese” fa un doppio lavoro: da una parte si vuole – e quelle citate effettivamente sono – testo autonomo e autonomamente fruibile; dall’altra, al lettore che abbia presenti i testi precedenti, dice qualcosa di più di quanto dica al lettore ingenuo: così come un paesaggio, al viaggiatore che lo ripercorra dopo molti anni di assenza, e lo trovi trasformato, dice qualcosa di più di quanto dica al viaggiatore che lo percorra per la prima volta.
Mi è capitato spesso, accompagnando persone a visitare la mia città, di raccontare loro, mentre percorrevamo un largo viale, che quel viale era fino al 1952 un canale (che io stesso, peraltro, nato nel 1960, non ho mai visto), e che per questo l’asciuttissimo percorso si chiama «Riviera»; o di far loro notare, in certi edifici, le modificazioni e gli innalzamenti; o di ricordare le antiche funzioni di edifici o piazze o luoghi in generale oggi a tutt’altre funzioni adibiti; e così via, nel tentativo di generare anche nel visitatore quella specie di doppio sguardo dal quale, risiedendo nella città da quasi cinquant’anni, non sono capace di esimermi.
Ma visto che ho citato Manzoni, ecco qui la celebre descrizione iniziale de I promessi sposi (se la ricordate bene, potete passare oltre):
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute.
Per una di queste stradicciole… Eccetera eccetera.
E adesso che ve la siete ripassata, ’sta fin troppo celebre descrizione, provate la leggere lo splendido (secondo me) incipit del romanzo di Gilberto Squizzato Il ritorno del Capitano (romanzo inedito; l’incipit fu presentato, nel 2011, al convegno RicercaBo – Laboratorio di nuove scritture, svoltosi a San Lazzaro di Savena, presso Bologna, nel 2011).
Quel ramo dell’autostrada dei Laghi che corre da Busto a Milano tra due muraglie non interrotte di case e di fabbriche, di capannoni e cantieri, fra i quali riappaiono a tratti macchie intristite di brughiera superstite, di prati disfatti, di giardini slabbrati frastornati dal flusso inesausto di tir, di corriere, di suv, di furgoni, di automobili in fuga che s’inoltrano a forza nel magma dei cementi profusi sulle antiche campagne a cancellare il ricordo delle belle cascine, dei cortili rurali, dei paesi ordinati e armoniosi, vien quasi a un tratto a ristringersi in un gorgo affannoso che potrebbe esondare se non ci fosse i douglas a contenerne la piena dentro barriere che dan corso e figura di fiume a quest’alluvione soffocata e scomposta di motori ingolfati, di rombanti e frustrate prepotenze meccaniche. Alla curva di Quarto la corrente dei veicoli in piena che sbocca dallo snodo di Pero e che già si è nutrita dello straripante affluente che viene da Como e un secondo immissario che sgorga dalla Torino-Milano si accavallano insieme, s’ingolfano a fiotti confluendo nello spasmo contratto, ansimante della principale fiumana che viene dal Lago Maggiore, da Malpensa, da Somma: l’ondata di piena si riversa a fatica dentro la gola ferita che slabbra a nordovest la megalopoli informe e violata, si dilunga a fatica fra torri accecate e superbe verso il ponte Ghisallo che coi suoi brevi tiranti malamente scopiazza il vigore grandioso di quello di Brooklin scavalcando i binari delle ferrovie dello stato prima d’involtarsi nel vortice obliquo di viale Scarampo. Ma già sul curvone che sorpassa Bovisa e i suoi tanti stridenti binari le sfiancate correnti di plastica e ferro discese con tanta baldanza dal nord si sono placate nell’esacerbante lentezza della foce che adesso dilaga per rami e profluvi in decine di branche: alla Certosa che fu del Petrarca, a Musocco e al suo cimitero plebeo, al Triboniano delle mille baracche dei rom, alla mole pantagruelica e vuota del Palatrussardi, a quel grumo di detriti archeologici del boom economico anni Cinquanta che pretende il nome di Monte Stella per spiar da lontano il Duomo e la Torre Velasca, alla favela di Bacula, ai cantieri smodati e sgraziati della boriosa finanza della nuova speculazione urbana che è solo crudeltà ambientale.
Così dunque, a fiotti gementi, a singulti, l’ondata del maremoto veicolare dilaga a stento in un reticolo estenuato di strade e stradine, cerca a fatica uno sbocco verso piazza Firenze, le Nord, il Castello, verso il Parco Sempione, verso gli sventramenti feroci di Porta Nuova e dell’Isola. E’ una miriade di rivoli sussultanti e scomposti, uno più impetuoso e robusto, gli altri sfibrati da curve, da incroci, da precedenze obbligate dove s’ingorgano, a centinaia, a migliaia, i destini ingrigiti di pendolari infiacchiti che scendono quaggiù ogni giorno dalle brughiere e dei laghi per anonimarsi in questo termitaio di uffici, di negozi e garages, di vetrine, sportelli bancari: e solo chi ha il privilegio di risalire coi montacarichi umani le postazioni più alte dei cristalli verticali per uscir fuori in cima alle torri asmatiche intossicate dalle polveri sottili e stanziarsi per le otto ore salariali dentro attici ermetici, dentro stantie workstation telematizzate ha facoltà di umiliare con occhi alteri e arroganti gli antichi sottostanti cortili a ringhiera ridotti a brandelli dal nuovo capitale e bearsi l’anima col panorama sconfinato che dal Resegone e dalle due Grigne si spalanca a occidente verso il Mottarone, i corni svizzeri del Sempione, alla potenza inesausta del massiccio del Rosa, fino a intravvedere, nelle giornate più limpide, financo il Monviso; e non c’è chi, da quassù, guardando col cuore sospiroso e discernendo quei profili, quei pendìi lenti e continui, quelle guglie, quelle spianate alpine che digradano in poggi, in balzi, in vallate, secondo l’andamento della catena montuosa che il lavoro dell’acque, del gelo e del vento ha scolpito in epoche remote non tragga qualche consolazione alla sua prigionia, rassegnando la mente illanguidita a consegnarsi remissiva e vinta a cumuli di ordinativi, di fatture e cambiali, di contabilità finanziarie e ordinativi commerciali che gli consenton di sopravvivere fino al prossimo weekend.
Il lembo estremo di quella confortante visione tracima verso settentrione e occidente, che è come dire verso Svizzera e Francia, dentro i vapori nebbiosi di sapor leonardesco di un orizzonte indefinito dentro cui si perde l’immaginazione in fuga, mentre in basso ribolle il magmatico inferno delle strade straripanti altro traffico ansante attraversato da lavavetri abusivi, da zingare sottomesse e ringhiose, da clandestini deformi che ostentano le proprie miserie per impietosir l’insofferenza e il disgusto dei più, per rimediare qualche briciola che cada dalla mensa non più epulona di un benessere, più rimpianto che reale, che oggi svende gli ultimi risparmi per conservar una patina di rispettabile decoro mentre dissipa le ultime illusioni che si erano nutrite di deliri speculativi a buon mercato.
Il resto: praticelli superstiti qua e là, giardinetti svigoriti dallo smog, passerelle sopra e sottoelevate, imbuti ipogei del metro, filari di platani e tigli spossati dal fragore dei tram e dei suv, palazzine e casamenti naufraghi nel magma disurbano, piazzali accerchiati dalle rotatorie obbligate, monumenti in rovina di benemeriti insigni commiserati dall’insolenza dei tempi: tutto questo è la Milano morattiana e leghista, il residuo della bella città di Manzoni e Stendhal, di Foscolo e Parini, già capitale morale del bel paese contaminato e ammorbato dalla tangentopoli meneghina, dall’arrembaggio trionfante degli spacciatori di carriere cocainate, dall’eleganza nauseabonda del bel mondo modaiolo e zippato.
Questo è ciò che si vede, a guardare dall’alto: più sotto, scorticando la capitale immorale per metterne in mostra i bassifondi nascosti, si vedrebbe ribollire la straripante fiumaglia dei liquami fognari che da cento e più anni han preso possesso dei canali che dai tempi di Leonardo fino alla strage di Bava Beccaris avevano inghirlandato Milano di corsi d’acqua smaglianti, navigati da chiatte e barconi; che per secoli si eran fatti nuotare fra spruzzi e grida dai ragazzi in festa; che avevan rispecchiato quel bel cielo Lombardia quando è così bello, così limpido e così in pace; che avevano ogni giorno rappacificato alla vita le fatiche e i dolori del popolo e anche del popolino insofferente ai soprusi come il Renzo di Lucia; che erano stati le vie più felici per uscir dalla città e rientrarvi, in collegamento coi tanti Navigli, specialmente il Pavese, che oggi è l’unico a veder ancora la luce del sole, perché da più d’un secolo quella ragnatela d’acque vitali è stata interrata sotto le volte oscure e puzzolenti delle due circonvallazioni stradali che radendo al suolo i bastioni spagnoli han trasformato la città in un autodromo velenoso e assordante, e sempre insufficiente a smaltire la sbornia bovina delle mandrie di jeep e di suv che ad ogni ora diurna e notturna si fan largo sulle miserande piste d’asfalto per dichiarar la prepotenza e il dominio dei berluscones insofferenti d’ogni disciplina e d’ogni buona creanza.
El Tobon de San Marc, che era il portocanale in cuore alla città, a due passi dal Duomo, così come il Laghetto se n’e andato a morire sotto le gettate di cemento e i pontili asfaltati; e così son finite le passeggiate al crepuscolo di quando la gente scendeva giù dalla ringhiera per dirsi: «Buona sera, com’è andata oggi? Visto che pioggia settembrina…» oppure «Una brina così non si vedeva da dieci anni, però ha il suo bello, con tutti quei cristalli sui rami degli arbusti…»; e magari uno aveva il piacere di ascoltar la storia di un altro, una storia così, da niente, ma pur sempre storie vere e quotidiane di gente genuina, alla milanese di un tempo, quella di Beppe Viola e di Jannacci, invece di impasticcarsi con Internet e pastiglie anfetaminiche per render di più sul lavoro e dentro i talami abusivi. Così, coi canali, se ne n’è andato da tempo anche il dialetto di quella che una volta era Milano: quella parlata sana, robusta, di buon cuore disincantato, che era del Porta e di Piero Mazzarella al Teatro Gerolamo: ne è rimasto solo qualche desolante scimmiottamento dentro gli urli barbari di certe marmaglie lumbard che brandiscono torce minacciose e sguardi feroci dalle parti di Opera oppure di Rozzano contro i bambini dei nomadi accampati in discariche a cielo aperto. E di tutta quell’acqua in placido e operoso movimento per secoli è rimasta soltanto la Darsena, ma solo a far colore, quando le danno un po’ d’acqua e qualche canottiere si prende il lusso di studiar le pantegane dal vivo, di remigare fra i rifiuti, di dar la voce a qualche homeless che si è rintanato sotto i ponti annidandosi con le sue miserie negli anfratti delle ripe di pietra.
La gran bella città che era borghese e operaia, e orgogliosa di esserlo, è receduta al rango di borgo spropositato e smisurato, si è fatta bottino di masnade di corsari in doppio petto, si lascia vigilare da ronde d’ignoranti pronti a menar le mani, in mancanza d’altro, perché se potessero passerebbero alle spicce come le plebi di Castelvolturno contro i negri massacrati dai camorristi. Sicchè, alla fine, non resta che il mal gusto di vivere in perfetto, supremo, micragnoso egoismo.
Eppure nei fatti che prendiamo a raccontare questo borgo smisurato che ha voglia di dar oggi il peggio di se stesso, di menar vanto di una grettezza mai vista prima, che s’adorna di plateali scenografie pornografiche di fotomodelle armanizzate, pradizzate, etrizzate e così via all’infinito, per ogni dove, ad ogni incrocio, ad ogni prospettiva, si vedrà che ha ancora in serbo certe liete sorprese, che si potranno scoprire dentro gli anfratti più polverosi e unti di questa metropoli decomposta e smemorata delle proprie antiche fragranze, sui marciapiedi vulnerati dall’incuria unanime e immemore dell’antica gentilezza dei modi, o dentro certi cortili riposti, nascosti e si direbbe quasi assopiti sotto il peso dell’universale stanchezza del vivere, su per certi lenti gracidanti ascensori o in fila ai banchi dei superstiti mercati rionali che son stati in gran parte sottratti alle sane abitudini della gente più umile per dare sfogo alle nuove città commerciali, posti immensi dove si può trovare tutto l’utile, il necessario e l’indispensabile sia per il corpo che per la mente, ma poco o nulla per l’anima. E proprio qui dove non avesti neppur il sospetto di poterle cercare e scovare, s’annidano fino ad oggi ancora certe isole di allegria, o almeno di letizia insospettata, per non dir di poesia, di solidale consonanza del vivere quotidiano, insieme con drammi e storie che starebbero bene in un romanzo, se fossimo capaci di scriverlo come si deve senza farci prendere dai nostri furori, dalle nostre malinconie…
Per una di queste viuzze della fascia sub centrale di Milano…Eccetera eccetera.
Paura, eh?