L’artista pop (quasi l’inventore del pop, si potrebbe dire) Andy Warhol produsse molte opere nelle quali usava, in diversi modi, oggetti o immagini già esistenti. I suoi famosi ritratti, infatti, da Sofia Loren a Mao Tse-Tung (o Zedong, come si usa scrivere oggi), non sono altro che fotografie solarizzate con colori applicati: e, trattandosi spesso di celebrità, e di fotografie a tutti note (nel caso di Mao, di immagini ufficiali), è inevitabile che la memoria del guardante vada non solo alla persona rappresentata, ma anche a quella specifica fotografia adoperata (o “trattata”, come certi dicono) dall’artista. I suoi quadri rappresentanti scatole di detersivi, barattoli di zuppa o bottiglie di bibita scura gassata non sono forse rappresentazioni di rappresentazioni, ma sono – scusate le parolacce – risignificazioni di oggetti già di per sé significanti.
Ma questa pratica non appartiene solo all’arte pop. La celebre descrizione della peste in Atene che si trova nelle Storie di Tucidide era ben presente (e si vede, e i filologi ci hanno speso sopra anni di fatiche, producendo ponderosi volumi) a Lucrezio quando scriveva il De rerum natura; non conosceva la seconda (i manoscritti furono ritrovati più tardi), ma la prima sì, Boccaccio quando scriveva il prologo del Decamerone; e Alessandro Manzoni, quando si cimentò anch’egli con la peste, le conosceva tutte; per tacere di Albert Camus…
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