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Sperimentare il sublime nello spazio presente

Sperimentare il sublime nello spazio presente

di Fiammetta Palpati

[L’articolo prende spunto dall’introduzione all’Annuario di Raccontare il paesaggio 2023, Sperimentare il sublime nello spazio contemporaneo, a cura di Fiammetta Palpati]

A parte davanti a una carbonara ben riuscita avverto un certo imbarazzo a tirare in ballo il sublime. Oggi il sublime è una presenza fantasmatica, legata a reminiscenze scolastiche e circoscritta a determinate sfere artistiche. Insomma una cosa dotta, e un po’ vecchiotta. In effetti il primo uso di «sublime» lo fece proprio la retorica antica; aveva valore di aggettivo e qualificava l’opera o l’autore di valore eccelso, ineguagliabile, inarrivabile, oltre il quale non era possibile andare poiché raggiungeva il limite; uso giustificato, peraltro, da una delle etimologie del termine – quella più intuitiva e diffusa, per la quale nel sub-limen latino sub varrebbe come «sotto», e limen come «soglia»: quindi, propriamente è sublime ciò «che giunge [o che ci fa giungere] fin sotto la soglia più alta».

Ora, per la retorica antica le qualità eccellenti (e incomparabili dal momento che il superlativo è assoluto) erano appannaggio di uno stile oratorio alto e solenne che conveniva agli argomenti seri, tragici, epici; uno stile che l’autore cercava di ottenere per muovere alla partecipazione, al trasporto emotivo (non, o solo in un secondo momento, alla persuasione): lo stile sublime, o sublime tout court. Ma come possiamo riconoscere il sublime come emozione? Si tratta soltanto di un intenso turbamento? Ai limiti del tollerabile? O c’è qualcos’altro? Nel primo testo interamente dedicato a questo modo del discorso (un trattato del I secolo, in lingua greca, generalmente tradotto in italiano come Sul sublime, di autore non identificato ma comunemente chiamato Pseudo Longino) si parla di un crescere su sé stessi. La sensazione sublime mi apre l’animo, mi fa gonfiare, espande l’io, come se la grandezza di quell’opera, di quell’autore, fosse anche la mia grandezza. E fin qui tutto sembra abbastanza lineare: abbiamo un modo del discorso, uno stile – chiamiamola pure una tecnica – e abbiamo una emozione (di cui, attenzione, partecipano autore e fruitore) che si muove tra due limiti: un alto e un basso, un tutto e un nulla, un pieno e un vuoto.

Ma abbastanza precocemente l’ambivalenza di «sublime», che indicava tanto lo stile quanto la sensazione, si arricchisce di ulteriori valenze, e finisce per diventare un soggetto autonomo. A partire dal tardo Seicento, segnatamente da quando il trattato antico dello Pseudo Longino comincia a essere molto conosciuto grazie alla traduzione in francese a opera di Nicolas Boileau, esso contempla sia un ragionamento filosofico (imperniato sulla relazione tra uomo, natura e cosmo di cui il sublime rappresenta, appunto, una delle possibili relazioni), sia una sfera dell’arte, del gusto, della sensibilità che sente ed esprime – e si esprime con – il sublime, cioè a partire da e per finire con – quel tipo di relazione. È nata, in sostanza, l’estetica moderna dove bello e sublime (che del bello non era, al principio, che il fratello cadetto) cammineranno paralleli, si affiancheranno e si opporranno nel rappresentare un modo di sentirsi nel mondo, di pensarsi nell’universo.

È la natura nei suoi aspetti più violenti, più selvaggi, più incontenibili (i loci horridi dell’antichità) a fornire all’artista tra Sette e Ottocento, le occasioni per sentire il sublime. Sono i luoghi e i fenomeni naturali – soprattutto quelli distruttivi – che mettono l’uomo nelle condizioni di sperimentare un senso di nullità e di grandezza insieme. Ma, mentre possiamo capire facilmente da dove ci viene il senso di nullità di fronte a un’eruzione vulcanica, da dove nasce la grandezza? Cosa mi fa crescere su me stesso davanti a un disastro? La possibilità di sentirmi allo stesso tempo dentro e fuori quella manifestazione. Dentro perché parte del mondo naturale; parte – sebbene non più centrale – del creato; e fuori perché in grado di contemplarla, guardarla, rappresentarla, farne paesaggio, recuperando in questo modo una forma di centralità, di potenza. Il mondo ha cominciato a essere paesaggio quando, in epoca moderna, a partire dallo sguardo l’uomo consolida la possibilità di contemplarlo, e quindi di avvertirsi anche esterno. Il soggetto perde la centralità ma guadagna una mobilità dello sguardo che altera l’equilibrio, la simmetria, l’armonia degli elementi, ma gli consente di muoversi e anche di sperimentare pericolosi avvicinamenti, distorsioni della forma, delle dimensioni, della materia. Tra l’uomo che guarda e il mondo, tra l’io e la natura, c’è un io che comincia ad avvertirsi dentro e fuori: è l’io sublime. Questa parabola moderna, che vede legati il sublime e il paesaggio, culmina con la pubblicazione, tra Sette e Ottocento, di una serie di testi di natura filosofica e critica che esaminano e/o danno ragione di una torsione nell’arte. Dalla scultura alla pittura, dalla poesia alla letteratura e alla musica la ricerca del bello passa in secondo piano rispetto a quella del sublime. È il momento di massimo fulgore dell’estetica del sublime naturale, che tocca il suo apice nel XIX secolo con il Romanticismo. Da questo apice di popolarità la curva del sublime comincia a scendere: un declino della sensibilità, della prassi poetica e del discorso teorico che prosegue per tutto il Novecento.

Oggi parlare di sublime è fuori moda. Ripeto: sa di vecchio.

Eppure è tutt’altro che morto. E non solo perché, come sostiene Massimo Fusillo in Esperienze del limite. Il sublime e la sua ricezione moderna[1] – è sopravvissuto alla post modernità attraverso l’estetica kitsch e camp (che rappresenterebbero due forme di sublime mal riuscito, abortito in partenza, deviato dalla sua traiettoria) ma perché alcuni temi attualissimi, portati su un piano esistenziale e trascendentale, hanno trovato espressione attraverso un’estetica sublime. Un film come Melancholia, di Lars Von Trier, o l’istallazione I sette palazzi celesti di Hanselm Kiefer, nell’hangar Pirelli Bicocca a Milano – alcune delle opere esaminate da Fusillo – non sono semplicemente delle opere sublimi – lo sono; sono delle opere in cui il sublime è declinato in tutta la sua sostanza: suscitato, analizzato, storicizzato e tematizzato fino a risalirne le origini, i temi, i simboli, i linguaggi, la tradizione, gli autori. Un’estetica che non teme di osare, alzare l’asticella, pretendere, e molto più vitale di quanto non farebbe credere lo stato di illanguidimento del discorso teorico.

Forse soffriamo semplicemente di una sorta di analfabetismo per il sublime. Non lo sappiamo leggere e neanche sentire. Tramontati i modelli formativi eroici che esaltavano un certo linguaggio emotivo, e assuefatti da una sovraesposizione mediatica a stimoli forti (paura, sorpresa, eccetera) ci siamo desensibilizzati. Per alfabetizzarci al sublime forse dovremmo guardare il nostro mondo, il mondo della globalizzazione, la nuova era – il postulato antropocene –  in una prospettiva meno ideologica che non escluda – che non escluda almeno moralmente – il sublime. Forse per la sua capacità di contemplare, contemporaneamente, le estremità – l’orrido e l’eccelso, il nulla e la totalità – il sublime potrebbe essere più utile o calzante di aggettivi e categorie estetiche come bello, giusto, vero, o tragico, che usiamo paradossalmente con più disinvoltura.


[1] M. Fusillo, Esperienze del limite. Il sublime e la sua ricezione moderna in Sul sublime, a cura di S. Halliwell, traduzione di L. Lulli, Milano, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, 2021.