Storia di uno sguardo a puntate, 9 / Bianca folla di farina – Santa Maria di Amelia (seconda parte)

Storia di uno sguardo a puntate, 9 / Bianca folla di farina – Santa Maria di Amelia (seconda parte)

di Fiammetta Palpati

[Nella rubrica Storia di uno sguardo, raccolgo delle brevi narrazioni – descrizioni, osservazioni, aneddoti – sui luoghi nei quali ho scelto di vivere – Amelia e i colli amerini – e che ospitarono il primo esperimento residenziale di Raccontare il paesaggio. Nata per rendere familiare ai partecipanti le località che li avrebbero ospitati, la rubrica è rimasta un laboratorio personale sul quale misurarmi sulla narrazione dei luoghi, sullo sguardo che crea il paesaggio, sul complesso rapporto tra parola e immagine. fp].

Leggi la prima parte

C’è una macchia chiara nel mio paesaggio verde. Una chiazza biancastra, che si dilata e si restringe, ma rimane là ostinata, se non indelebile almeno persistente, come la plastica, come la luce del giorno.

Una mattina di agosto inoltrato; presto, quando l’aria è ancora lattiginosa, densa di umidità salubre; una data variabile – ma che sempre cade di domenica – un moto innerva le mie colline, appena sotto la cortina che le riveste: la lecceta, gli olivi, gli incolti, e una schiera e l’altra delle nuove abitazioni di questa prima campagna amerina – così nel gergo immobiliare – di questa ruralità urbanizzata. Sono segnali generici, piccole alterazioni subito riassorbite dall’immobilità domenicale: una finestra che si illumina – giusto il tempo necessario ad alzarsi e vestirsi in fretta; una porta chiusa con cautela – per non svegliare il resto della famiglia; l’avviamento di un motore; un paio di abbaglianti, isolati, lungo la statale che improvvisamente svoltano in basso, verso la chiesetta di Santa Maria, senza nemmeno segnalare perché la strada è deserta. Movimenti di per sé insignificanti, se non convergessero tutti nel medesimo punto, nel medesimo tempo.

Con modi sicuri e misurati. Di comune accordo. Cioè accordati insieme. Una folla bianca – perché è l’alba e l’alba è bianca – si raduna sotto il tendone illuminato al neon, a preparare la festa.

Quando arrivo ci sono già parecchie macchine parcheggiate; altre scendono dietro di me silenziosamente – mettendo in folle gli ultimi metri – e spengono definitivamente davanti al muro del convento disabitato; o mi vengono incontro dalla direzione opposta, sballonzolando sulle buche della stradina che solca la valletta e il fosso, rasenti le bacche dei rovi, dei sambuchi, dei cornioli, che si gonfiano e si asciugano nell’arco del giorno, tra la rugiada e la polvere della breccia. Qualcuno – chi ha più familiarità o anzianità – si spinge fin sotto la grande quercia da cui pende in alto, tra i rami, una spalletta di maiale, e sotto, appeso al tronco:

ALTEZZA PROSCIUTTO
1 EURO A BIGLIETTO
AZZÉCCACE PE’.

Io mi fermo alla transenna, di fianco al palchetto con i fari e i fumogeni spenti. Scarico la spianatoia, il mattarello, lego grembiule e capelli.

Il prefabbricato della cucina è aperto, ma i fornelli sono spenti, l’acciaio asciugato, e le cuffie riposte. Dei fumi di ieri sera – pentoloni di stinchi, gnocchi, polenta, bracieri e friggitrici, tovagliette col menu sponsorizzato – molto movimento terra e taglio legna – ciambelline al vino, seggiole impilabili, amaro e torneo di briscola, fisarmonica, complessino, pista da ballo, commedia in dialetto e tiro al bersaglio; e uno sciame di ragazzini in maglietta Termoidraulica Pacini Dino a vendere biglietti della lotteria o per mano ai vecchi che li accompagnano a pescare. La Pesca di Beneficenza – la pesca dove negli anni ho vinto una quantità di spugnette per i piatti e feltrini per le sedie. Di tutto questo baccano festoso e sudato stamane rimane l’immondizia ben stretta nei sacchi in un angolo discosto, dietro un’incannucciata, o tra i lecci, in attesa del ritiro, e un orgoglio, affiatato e pudico – finanche scontroso – nel comitato festeggiamenti. Si fa per la comunità, sussurrano. O, in alternativa, per la parrocchia. Subito abbassano gli occhi – sono timidi gli umbri. Il che significa che qualcuno ha fatto nottata a ripulire. O che il mattino ha steso un telo bianco, fresco, per l’ultimo sforzo: tenere in vita la festa religiosa.

Il movimento è intorno al gazebo, sul brecciolino e le ghiande umide: un andirivieni di bombole e fornelli da campo e padelloni con tre maniglie. Dentro, invece, sotto la tela cerata, un tepore opalescente e polveroso di farina cruda – gradevole sulle braccia scoperte – e una sequela ordinata di spianatoie, mattarelli, tovaglie un po’ andate, che sanno di buon cassetto.

Le spianatoie, in fila, si assomigliano tutte, ma non sono identiche. La mia è ingiallita, piena di nodi, di scalfitture, di macchie d’unto. Quella a destra, in confronto, è rosa – pubescente, come certo legno che alla pialla reagisce sollevando il pelo. Ne arriva un’altra – solido multistrato di betulla Ikea – e scorriamo tutte verso il fondo. Addio. Userò quella che càpita.

Mi unisco al capannello di donne intorno all’impasto. Tradizionalmente le cresciole – è questa la nostra offerta, l’offerta della comunità di Santa Maria dei Monticelli alla città di Amelia – erano di sola farina, vino, e olio; oggi si mettono anche uova. Si tratta di una variante locale della pizza fritta – che si fa in mezza Italia, soprattutto al centro: un disco largo quanto un piatto da cucina, steso sottile, che il grasso rende leggerissimo e croccante. Dolce o salato. Sabrina, nello scrivermi la ricetta, mi dice che sua nonna le faceva una sola volta l’anno, per festeggiare la raccolta delle olive, e le friggeva nell’olio nuovo.

Comunque: la prima dose la fanno le veterane, silenziosamente ma senza cerimonie e seguendo un foglietto. Avanti e indietro tra la bilancia, le tanichette e i cartoni delle uova. Poi in due tornano dalla cucina con la pentola.

«Scanzàteve che è calla

Noi astanti facciamo un passo indietro e il capannello si apre sull’impastatrice, in terra, sul cemento. L’acqua si versa a occhio. Restiamo mute a guardare le pale che arrancano. Tra le vecchie un mormorio; un po’ di apprensione. L’esperienza è questo richiamare alla memoria – a distanza di un anno e al di là dei pesi e delle misure – l’esatta consistenza, l’esatta umidità della pasta. È questo rimanere attenti e mansueti – alle cose, e forse anche alle avversità. Il ronzio adesso s’è fatto più uniforme, l’impasto comincia a staccarsi dalle pareti d’acciaio, ad attorcigliarsi in spirali intorno alla frusta a gancio, poi ad allontanarsene, e di nuovo tornare ad aderire, sempre più compatto, più liscio, lucente. Stiamo tutte lì, un po’ incantate davanti alla planetaria, noi avventizie – donne di zona venute a dare una mano, accorse a offrire la manovalanza. Lo zoccolo duro sono le pensionate dei coltivatori diretti, della cassa artigiani, le operaie dell’ex Pastificio o dell’ex Maglificio; ma poi ci sono maestre, presidi, casalinghe che fanno le ore, giovani universitarie, bambine. Tutte legate per un verso o un altro a questa parrocchietta dove quando si fanno le Comunioni o le Cresime non ci si sta tutti. E allora gli uomini aspettano fuori, insaccati nella giacca, sotto il porticato con le volte basse.

Affezionati a Santa Maria dei Monticelli.

Noi ci siamo insediati da forestieri. Era agosto e dalla nostra casa bella e cadente sentivamo la musica, e gli scoppi dei fuochi d’artificio. Allora, nel 2005, ancora si chiamava Sagra della cresciola. Poi è cambiata la normativa sulle feste popolari, le cresciole non sono state ritenute un prodotto abbastanza locale e si è ripiegato su Festa del Maialino, cioè sul piatto forte di Gianni il cuoco. Sul manifesto pubblicitario c’è un porcellino col cappello da chef, una cucchiara di legno in mano e un’espressione felice che mette fame e allegria (anche se, pensandoci meglio, un maiale che cucina un maiale è macabro). Cenammo sotto il gazebo – che detestai perché mancava l’aria e le voci rimbombavano. Tornando a casa, al buio lunare, sentimmo un miagolio. Veniva dal muro a secco lungo la strada bianca ed era insistente. Prepotente e disperato. Spostammo un paio di pietre e gli spini della stracciacalzoni e venne fuori il solito gattino. Lo chiamammo, euforicamente, Quarantacinque, perché era il compleanno di mio marito e ne compiva appunto quarantacinque. Ci parve un buon segno. Un segno di accoglienza. Anche se poi chiedemmo ai vicini di dargli un’occhiata durante la nostra assenza – ancora non ci eravamo stabiliti del tutto – ma il gatto non si rivide più egualmente.

Comunque. Le anziane – le nonne attive – sono lo zoccolo duro delle cresciole: quelle con più tempo da sacrificare, naturalmente; o che hanno conservato la memoria di questa festa. Anche la memoria della fatica del corpo. La riconosco in quella misurata, sobria reverenza che mostrano di fronte alla macchina che ce ne ha emancipati; in come seguono il movimento dell’impastatrice; in quella gomitata alla vicina, con la quale si deve aver condiviso il tempo in cui si faceva tutto a mano.

Reverenza ai limiti della meraviglia, dell’incredulità, ma anche dell’auto-compiacimento. E forse già del rimpianto – già nella post-modernità.

E poi stop, qualcuno deve aver spento, e in un attimo, mentre ero sovrappensiero, mentre pensavo alla post-modernità – che da noi è arrivata saltando la modernità – l’impasto è stato rovesciato su una delle spianatoie tra le mani di un’altra veterana. È ancora appiccicoso. La mano destra lo solleva, contemporaneamente la sinistra lo spolvera di farina, entrambe lo rovesciano, lo allungano, lo ripiegano, mentre i polsi affondano: un movimento uniforme che parte dalla spalla, coinvolge il gomito, e finisce contro il legno della tavola; a bocca stretta e occhi bassi. Senza fretta ma senza sosta, il lascito millenario dei lavori agricoli in fatto di resistenza, tenuta. E umiltà. Alza gli occhi:

«Abbasta?»

«Mejo molla che dura.»

È il coro di donne in attesa, ansiose di dimostrare – anche noi – la nostra buona volontà. Si fa sempre in tempo ad aggiungere altra farina, dice il buon senso.

Tenete conto di quanta impersonalità in tutto questo.

E comunque adesso abbiamo i filoncini. Vanno divisi in tocchetti – più o meno il pugno di un ragazzino. Dalla cucina arriva un coltellaccio. Maria sorveglia l’operazione – è lei quella che dirige tutta la faccenda. Da questa prima pezzatura dipenderà l’ampiezza, lo spessore, il numero delle cresciole che si otterranno; e il tempo: prima della Messa deve essere tutto finito, poi c’è da far da mangiare per la comunità, e preparare per la festa del pomeriggio: rivestire di carta bianca i tavoli, dietro le transenne – per contenere la fila davanti alle ceste e alla mescita. Insomma tutto un complesso rapporto tra fatica, spesa e riuscita della festa. Non bisogna strafare ma nemmeno rischiare una brutta figura: perché è la festa della Madonna, perché è tradizione, perché si spera che poi la gente si fermi a cenare alla taverna – e il vero incasso è lì.

Comunque adesso sta a noi – tocca a qualcuna di noi avventizie – il compito relativamente semplice di modellare i tocchetti di pasta tra le mani, in palline, prima di poterli stendere in sfoglie.

Inspiegabilmente nessuna si muove. Incantate. O intimidite.

«Annàmo donne, me ce metto io alle palle!»

A buttarsi, generalmente, è una con molto senso pratico, o sfrontatezza. Spesso viene da fuori. Anzi no: è un’oriunda che per studio, per lavoro, per famiglia, abbia vissuto, o viva altrove. A Roma – è molto probabile. O più distante – a Milano, magari. Persino a Londra. Una che ad Amelia viene regolarmente per il fine settimana e lascia i figli qui l’estate, dopo la scuola, con i nonni. O che torna solo a Natale e a Ferragosto. Comunque immagino che sia questa energia centrifuga che rompe l’incantamento dando via alla moltiplicazione vera e propria. Ma la donna delle palline è pure una che chiacchiera forte, e anche per questo riserva a sé stessa un compito relativamente banale: un ruolo che sancisca il proprio appartenere – la memoria e la gratitudine al luogo – e allo stesso tempo la separazione; la scoperta dell’altrove. È questa condizione – definiamola pure semplicemente di sprovincializzata – ad esercitare, nelle mie congetture, una certa attrattiva sulle compaesane. Infatti subito le si fanno intorno almeno altre due accolite – amiche d’infanzia, compagne di scuola, lontane parenti – verosimilmente l’insieme delle tre relazioni – cos’è il contado se non un esteso parentado? – ciascuna pronta col mattarello e davanti alla spianatoia, impaziente di entrare nella catena. Una terza ne viene contagiata: e la prima squadra è fatta. Nel giro di poco se ne formano altre, mentre nuovi impasti sono pronti, e altri ne escono, allineati in filoncini, o in pagnottelle, tra la farina e i vassoi di plastica bianca.

Io mi metto tra le spianatrici. Le più numerose. Ci vuole manualità e precisione a stendere una sfoglia tonda, liscia e sottile; ma poiché servono molte braccia, alla fin fine Maria passa, osserva, e si accontenta. E poi sa che nella quantità, nella fragranza, nel profumo, nello zucchero, nella calca per l’accaparramento – me ne incarti altre due pe’ nonna che sta allettata? – alla forma nessuno bada più. Da parte sua la spianatrice apprendista è volenterosa e incosciente. Preme con entusiasmo. E nasconde dietro l’abbondante spolvero di farina la preoccupazione che la pasta si appiccichi al mattarello, o alla tavola o alle dita. La sfoglia ne risente: si indurisce, si crepa. La spianatrice ci mette più lena; pronta a sorridere alle compagne – e ai pochi uomini che si aggirano intorno ai banchi a punzecchiare le nostre cresciole affinché non bòllino eccessivamente in frittura – non si accorge delle pieghe, delle slabbrature, o del tondo sgraziato. Quando è certa che nessuno la stia osservando, butta via tutto e ricomincia.

A parte questo piccolo inceppo, la moltiplicazione ha preso via ed è inarrestabile, esponenziale; fuori controllo. Infatti ogni tanto una squadra è costretta a rallentare: troppi impasti poche palle; o troppe palle poche cresciole; o troppe cresciole poche padelle. Bisogna fermarsi.

Se ne approfitta per fare colazione. Dalla cucina arrivano i bicchierini di plastica, le bustine di zucchero, l’odore di caffè bruciato e i cabaret di cornetti e paste regalati dalle pasticcerie, o i ciambelloni mandati da casa – da chi partecipa a modo proprio, anche da lontano, a questa macchina dell’offerta. Io mi abboffo, autorizzata dalla levataccia e dal gusto mediocre, che non sazia: mentre da dietro l’incannucciata mi arriva lo sfrigolio dell’olio e la zaffata delle cresciole bollenti sulle quali lo zucchero s’attacca in un principio di caramellatura.

A friggere ci sono i patriarchi – tre per ogni padellone di ferro nerissimo – la faccia dura e pura e lucida di grasso e spirito di abnegazione e i forchettoni d’acciaio in mano. Gli altri uomini – mariti, padri, fratelli – stanno ai vassoi, o alla preparazione delle ceste; riempite quelle bianche da pane si usano le cassette rosse da olive.

Suona la prima campana, quella delle dieci.

Ormai stendo meccanicamente. E ascolto. Se non è strettamente necessario, nessuno mi rivolge la parola. Sono conversazioni piene di serena ordinarietà, di rassicurazioni insignificanti: aggiornamenti sui potti – i bambini – o sugli acciacchi, o su chi non ci sta più con la testa. Ma più sui bambini. Così personali eppure così intercambiabili – prive di intimità – che si tratta, per me, semplicemente di trovare un posto per ciascuno dei nomi che non conosco; di collocarli tra questi piccoli appezzamenti in cui sono frazionati i declivi compresi tra Fornole e Monte San Salvatore – il versante della catena amerina che in questo punto, degrada lentamente senza asperità fino alla piana del Tevere: Croce d’Alvo, Cecanibbio, San Lorenzo, Fornaci. E dove ogni tanto, grazie alla bonifica di un campo inselvatichito viene alla luce una vecchia scuola di campagna; una torre per piccioni; un frantoio dismesso; una cappella gentilizia con cimitero; una piantata d’olivi secolari soffocati dall’edera e dalla vitalba. Non sento gioia; non sento disperazione; solo un accadere, un seguitare. So di essere io. Io che non vedo persone, individui, ma soltanto genti. Io a vedere colonie, asservimenti, sollevazioni, guerreggiamenti, l’onda di cambiamenti lentissimi, il resistere, il persistere.

Mentre fuori la luce ingialliva e si asciugava, il gazebo ha finito per riempirsi. Ci si stringe. Si corre dalla spianatoia ai tavoloni, a fare spazio alle ultime sfoglie – questi soli pallidi di farina, stesi sulle tovaglie casalinghe. I vassoi, tra le braccia alzate, ci viaggiano sopra la testa; fendono il brusio da termitaio bianco che ci avvolge quanto i grembiuli, le tovaglie, il tendone cerato. E satura il tendone. E lo gonfia.

L’umidità della notte è completamente evaporata. La luce bianca si sta ritirando. Al suo posto arrivano i primi raggi caldi dalle colline a monte, da Foce, e colpiscono il lato est della chiesetta. Il muro spoglio. E poi sempre più alti e dritti e decisi. Avanzano. Stanno per raggiungere la nostra quercia. Il tendone. Come in un teatro delle ombre, proiettano le enormi braccia sinuose e le foglie lobate sulla tela cerata. La scaldano. Ci si fa aria con le mani, o con lo zinale infarinato. È in questo momento che qualcuno di robusto – un uomo – snoda i legacci. Le tende scorrono sui binari d’acciaio. L’aria arriva tutta insieme: gialla, asciutta, calda. E suona la seconda campana. La seconda chiamata.

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