La mansuetudine dei luoghi

La mansuetudine dei luoghi

di Adriana Ferrarini

[Adriana Ferrarini partecipa ai laboratori di Raccontare il paesaggio sin dalla loro prima edizione. Come scrive nell’Introduzione ai suoi testi precedenti apparsi in questo stesso blog “ogni ricognizione nei territori della mia vita mi mette davanti a uno spaccato stratigrafico che connette il mio viaggio a quello di chi mi ha preceduto e lo mappa all’interno di una songline” anche questo sulla mansuetudine ci porta in luoghi reali, virtuali, letterari, luoghi della memoria che sembrano stare non l’uno dopo l’altro – una linea dello spazio e del tempo – ma uno dentro l’altro. Non tanto giustapposti, quanto sovrapposti. E che, dunque, finisce paradossalmente col mettere in crisi il concetto stesso di mappa (come d’altro canto insiste da qualche decennio un geografo come Franco Farinelli col suo concetto di ricorsività) e, implicitamente, anche quello di luogo. Ed è proprio su quest’ultimo elemento – provocatoriamente e paradossalmente battezzato luogo inesistente – che il gruppo Raccontare il paesaggio attualmente al lavoro, guidato dalla scrivente, sta concentrando la propria esplorazione, mettendo alla prova programmaticamente e poeticamente, la solidità, l’identificabilità dei luoghi. fp]

Potrei cominciare da Foscolo, ma preferisco accodarmi alle file di grigi e curvi pensionati che nel corso dei decenni hanno atteso davanti allo sportello dell’ufficio postale per farsi annotare i diligenti risparmi su uno smilzo quadernino blu notte, che via via si riempiva di numeri sempre più lunghi. Seguendo i passi di questa umile coda secolare so che arriverò fino al sito di Cassa Depositi e Prestiti e quindi a quello di una sua società, la CDP Investimenti Sgr.

“Quando cade il soldin nella cassetta/l’anima vola al cielo benedetta” filastroccava il brillante omileta domenicano Johan Tetzel, nelle terre tedesche, prima che un severo monaco agostiniano, un certo Martin Lutero, lo sorpassasse in eloquenza; ma intanto a Roma sotto la pioggia d’oro versata da povere anime in cerca di una salvezza, celeste o terrena che fosse, erano germogliate cupole altisonanti: brucia, credo, nel cuore di ogni potente città la hýbris di sfidare la geologia ed ergersi oltre le nuvole, perciò squarciano i fianchi delle montagna, per diventare più marmoree di loro: il Burj Khalifa di Dubai con i suoi 828 metri di altezza, non è già una montagna secondo le convenzioni europee?

Come nella cassetta di Tetzel, anche in Cassa Depositi e Prestiti, CDP, tintinnano da un secolo e mezzo sogni e paure, l’ansia della sicurezza, l’angoscia della fame e l’avidità dell’accumulo: tutta la nostra grandezza e miseria, e così ci finiscono dentro, come in un tritacarne, pezzi di paesaggio e ne escono di nuovi. Di ciò in particolare si occupa CDP Investimenti Sgr, che “opera a sostegno delle politiche abitative, della valorizzazione del patrimonio pubblico e della crescita del settore turistico”.

Questo leggo sul sito che presenta una serie di tre foto a scorrimento per metà oscurate da una tendina grigia semitrasparente: un complesso residenziale bianco immacolato dall’aria nordica; il loggiato di un palazzo ottocentesco e quindi la parte superiore di un edificio di tipo industriale di fine Ottocento, con la scritta “UFFICIO GEOLOGICO” sull’ultimo marcapiano.

Sotto l’immagine principale, altre quattro più piccole illustrano le diverse missioni della società. E qui mi permetto una piccola postilla sulla parola d’origine latina tornata di moda depurata del suo senso religioso grazie al bagno nella lingua inglese, e quindi spendibile in modo sciolto. Le parole, come i luoghi, hanno una mansuetudine che solo gli alberi; senonché non dimenticano mai del tutto.

Chiusa la postilla clicco sulla seconda foto in alto a destra: un palazzo di un bianco sfavillante, e la scritta VALORIZZAZIONE E SVILUPPO a lato. È il Palazzo degli Esami a Roma, luogo per il quale, come sotto le forche caudine, sono passati legioni di aspiranti e sudaticci docenti e funzionari pubblici. Sulla pagina che appare, sovrastata da un dettaglio del palazzo che porta incisi i nomi dei tre più grandi italiani – Dante, Leonardo, Galileo – vado alla barra laterale di sinistra e la scorro, finché arrivo a Immobili in portafoglio. Si apre una pagina con una cartina dell’Italia in cui sono delineate tutte le regioni. Alcune sono in un elegante blu polvere altre in grigio nebbia. Il Veneto è blu. Al clic del mouse si apre una nuova pagina con una serie di piccole foto affiancate e una breve descrizione. Un’isola della laguna veneziana dal nome suggestivo di Sant’Angelo delle Polveri, un ex ospedale, un ex carcere: tutti ex, tutti in vendita, la fedeltà qui non è un valore, capisco.  Ma devo andare alla pagina successiva per trovare quello che cerco:

Padova, Caserma Barzon Fondo: FIV – Comparto Extra
Indirizzo: Via Melchiorre Cesarotti, 7
Superficie:  4.100 mq
Descrizione: L’immobile è ubicato nel centro storico di Padova in prossimità della Basilica del Santo, e potrà essere destinato a costituire un mix funzionale di destinazioni d’uso. Per scaricare la scheda dell’immobile clicca qui    

E qui trovo il Foscolo, e tutta la sua giovinezza arruffata e inquieta in un mondo come lui inquieto e in preda a grandi cambiamenti, quindi spaventato, eccitato, ad ogni modo scosso, e trovo anche un’edizione di me diciassettenne che seduta sulla scala esterna di casa, nelle ore di un tramonto di maggio, mandava a memoria i versi dei “Sepolcri” senza chiedersi perché, per una fede ingenua nel valore salvifico della letteratura o solo perché le piaceva sentirsi sulle labbra quei suoni verdi e duri, come smalti, malachite e marmo di Luni, e vedere come altre immagini si sovrapponevano a quelle di casa: sulla siepe di ligustro le urne antiche, sulla rete di recinzione i viaggi nell’Ellade, sul filo da stendere Firenze e le convalli popolate di case e d’oliveti.  

Nella caserma Barzon che all’epoca era ancora – ma lo sarebbe stata per poco – un collegio per studenti poveri fondato quattro secoli prima dal cardinale Pileo da Prata contemporaneo e collega di Petrarca, probabilmente mise piede un Foscolo non ancora ventenne, per vedere e farsi ispirare dalla stanza dove un disperato studente di medicina, tale Gerolamo Ortis, si era tolto la vita, due giorni dopo Pasqua, un anno prima che arrivasse in Padova, come un uragano, un generale così giovane e piccolo e magro da non credere fosse quello il cui nome giganteggiava di bocca in bocca. Dopo di lui niente sarebbe più stato come prima: il collegio venne chiuso, diventò comando austriaco, poi del Regio Esercito Italiano – e come tale ospitò cavalli e muli e veterinari e chirurghi dell’esercito in guerra, quindi caserma Mussolini, infine caserma Barzon, in onore di un tenente padovano morto nella guerra d’Africa. Ripeto, la mansuetudine dei luoghi è ammirevole.

Da qui sul finire degli anni di piombo, il 30 marzo 1980, un gruppo armato di destra si portò via 4 mitragliatrici MG 42/59, 5 fucili automatici, pistole e proiettili. Sulla parete esterna lasciò scritto ONORE AI CAMPAGNI (sic, volevano dare la colpa del gesto ai nemici, ma gli era venuto spontaneo scrivere camerati, poi si erano corretti). Era la domenica delle Palme, la loro fuga fu bloccata da una processione, dovettero abbandonare il furgone e le armi. A terra, sotto al portico della Caserma Barzon, la guardia a cui avevano sparato.

C’è un filo rosso di sangue che cola e tracima di secolo in secolo, lungo le pareti e i solai di questo immobile “ubicato nel centro storico di Padova” di fronte al chiostro del Paradiso del Santo: la trachite che in parte la riveste, l’argilla dei suoi mattoni temprati dal fuoco lo assorbono.  Le rocce ignee, come la trachite, sono il 65% dello strato superiore della superficie terrestre. Umani e bestie, tutti, camminiamo sul fuoco.

Dal 2012 la caserma Barzon è vuota; la Cassa Depositi e Prestiti l’ha acquistata dal Comune di Padova. Quindi da otto anni questo complesso, che dall’alto mostra la struttura di un convento, con chiostro e doppio porticato, è in stato di attesa: quale sarà la sua nuova veste? Forse tornerà a legarsi allo Studio, il Bo – in qualche modo per corsi e ricorsi vichiani, mi sembra la cosa più probabile – o forse lo abiteranno dimore di lusso con vista Santo?

Per ora sono quaranta metri di portici da percorrere, che, quando ci passo, mi mettono a disagio. Se è brutto, lì sotto è ancora più opprimente, e nei torridi pomeriggi d’estate, alla luce che si stampa scalcinata sulla parete corrosa, mi viene da pensare al muro abbacinante e perso del quadro di Fattori “In vedetta”, al Deserto dei Tartari di Buzzati, a un certo meridione metafisicamente sconsolato. Mi prende un’inerzia, un senso di vuoto, tanto che passare oltre le volte basse picchiettate di grumi di brune ragnatele, le finestre murate, le porte asimmetriche e di misura diversa, tutte polverose, tutte ottusamente chiuse, mi sembra una fatica smisurata, il cammino di un’esistenza.

Solo guardandolo dall’altro lato, con la fiancata del Santo e il suo chiostro di ortensie e cedri alle spalle, colgo la bellezza, per quanto dimessa e curiosamente asimmetrica, di questo fabbricato, del suo ampio loggiato superiore che conserva il ricordo dei cassettoni lignei e di una fascia affrescata.

Chissà se il povero Gerolamo Ortis di duecento e passa anni fa, si era mai affacciato a questa loggia per guardare verso le sue terre lontane, la Carnia, prima di colpirsi con un pugnale al petto; con un pugnale, anche lui il martedì dopo Pasqua, si toglierà la vita anche il suo emulo letterario, Jacopo Ortis. Strano come funziona la mente umana, come i ricordi si sedimentano in un lento processo di trasformazione, strano questo intreccio tra realtà e immaginazione, o finzione, che i luoghi rivelano e crea lunghe catene di rimandi che ci tengono saldamente insieme, come in una cordata. Riflettendo su una frase che mi ero appuntata nel primo corso di Raccontare il Paesaggio, “il luogo è lo spazio così come è stato vissuto da noi stessi e da chi ci ha preceduto”, sono giunta, tramite un personaggio di finzione, fino alla Caserma Barzon, e poi a Cassa Depositi e Prestiti, quindi alle file chilometriche di piccoli risparmiatori, ignari di possedere un mattoncino, un piccolo lego di questo immobile ubicato in prossimità della Basilica del Santo; ignari e fiduciosi, come lo erano i fedeli in ascolto di Tzetzel che ci sia qualcuno in vedetta e sappia vedere lontano, più lontano di ciascuno loro. Anche se in questo gioco di specchi si arriva a dubitare di tutto.

La Basilica di Sant’Antonio detta del Santo, a Padova, dal loggiato della Caserma Barzon

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