di Giulio Mozzi
Nel quarantesimo (e ultimo) capitolo del sesto libro di Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, romanzo anti-romanzesco (se non addirittura a-romanzesco) di Laurence Sterne, il personaggio narrante (che è Tristram Shandy stesso) si ferma (cosa che fa spessissimo) a fare qualche considerazione. Shandy, che come narratore è un divagatore nato, ovvero non viene mai al punto (teoricamente il Vita e opinioni dovrebbe essere un’autobiografia: effettivamente a pagina uno Shandy narra, sia pure ellitticamente, il proprio concepimento; ma bisogna arrivare fino a metà romanzo circa perché egli accenni alla propria nascita; e dalla nascita poi in praticamente non ci fa sapere più nulla di sé), si compiace molto del proprio talento divagatorio, al punto da rappresentare la “forma”, o il “percorso”, decidete voi, compiuto nei primi quattro volumi e poi – dichiarandosi molto soddisfatto – nel quinto. Qui in alto vedete una fotografia della pagina in questione, dalla prima edizione dell’opera.
Ora: quanto quei ghirigori effettivamente corrispondano al movimento narrativo dell’opera, lo lascio decidere a chi ha tempo per studiarsi queste cose (potete utilissimamente consultare questo sito dedicato al Tristram Shandy). I ghirigori mi servono per fare una domanda: se un testo, narrativo o non narrativo che sia, e per quanto ghirigorato sia, è pur sempre una linea, come potrà mai raccontare accettabilmente un paesaggio, che non è per nulla lineare?
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendii lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate,secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna.
Tanto famosa, questa descrizione incipitale (sulla quale, se avrò una certa autorizzazione, torneremo nei prossimi giorni), quanto tutto sommato deludente: riuscire a figurarsi davvero questo paesaggio, sulla base delle sole parole, è difficile. L’impressione più forte, mi azzardo a dirlo, ce la dà la frastagliatissima punteggiatura: dalla quale ricaviamo la sensazione di un paesaggio continuamente rotto e interrotto.
Qualche editore ha anche pensato al Tristram Shandy come a un giardino; benché il risultato, chissà perché, mi ricordi piuttosto Alice nel paese delle meraviglie. Il percorso del viottolo, peraltro, a voi che leggete dovrebbe ricordare qualcosa di cui abbiamo appena parlato:

D’altra parte, uno dei personaggi più celebri del romanzo, lo zio Toby, ufficiale a riposo, ha dedicato la propria vita a costruire, con la collaborazione un po’ reticente del suo fidato servitore, ed ex caporale, Trim, un paesaggio: una versione ridotta del campo di battaglia dell’assedio di Namur (se non ricordo male, quello del 1695), nella quale un paio di stivali può ben servire a “rappresentare” (o forse addirittura a “essere”) una batteria di mortai.

Dunque: un romanzo che, pur essendo inevitabilmente “lineare”, mette a dura prova la “linearità”; e che contiene ben poco paesaggio (quasi tutto avviene in casa), e quel poco non è un paesaggio “vero”, ma una “immagine di paesaggio”. Stranezze? Chissà. D’altra parte, in quante case italiane si fa, annualmente, il presepe?