di Giulio Mozzi
Solo grazie al filo che lo teneva legato ad Arianna il perfido Teseo riuscì, dopo aver ucciso Minotauro, a uscire dal labirinto (perfido, Teseo, perché dopo aver ricevuto cotanto aiuto, aver goduto della bellezza di Arianna – dai loro amplessi nacque Demofoonte – la piantò brutalmente, abbandonandola sull’isola di Nasso), (se la storia vi appassiona, potete ascoltare il bellissimo Lamento di Arianna di Claudio Monteverdi). Per Teseo il labirinto non fu mai (come fu, presumibilmente, nella mente e nelle carte di Dedalo) una mappa, un territorio: fu un percorso, da seguire all’andata e poi a ritroso. Non contava l’economia del percorso: l’importante non era trovare la strada più breve o meno contorta, l’importante era uscire da lì. Perdere il filo avrebbe significato: morte per inedia.
Vi ricordate quando, turisti in una città sconosciuta, lottavate contro il vento per consultare la mappa?
Oggi è più facile che vi capiti di camminare chini, lo sguardo sul vostro telefono, seguendo i pallini e le freccette di Google Maps. Non avete bisogno di mandare a memoria una sequenza (“Dunque, continuiamo qui su corso Chicago, fino all’angolo con via Filadelfia; la prendiamo, poi a sinistra vicolo Boston fino a piazzetta New York…”): dovete camminare, e badare che la freccetta che vi identifica (e non avete la minima idea di come faccia a farlo) non si discosti dalla sequenza di pallini; e dovete disinteressarvi del paesaggio che vi circonda, non dovete guardarlo, non dovete trovare dei punti di riferimento (“Vedi quel fornaio, quel negozio di chincaglierie cinesi, quel materassaio? Siamo già passati di qua…”). Per voi, chini sul vostro telefono, il percorso è ormai come un intreccio di tunnel, come un labirinto oscuro, unica luce – filo d’Arianna – restando quella dello schermetto.
Io, nel filo, sono tutta aggrovigliata. Perdermi, mi perdo, purtroppo dentro.
In realtà, speravo che Teseo volesse salvarmi e tirarmi fuori dal labirinto.
Comunque, non so più come farmi perdonare.
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