Le stanze del grano, un volume dal laboratorio

Le stanze del grano, un volume dal laboratorio

di Fiammetta Palpati [Dal 18 giugno scorso è in libreria “Le stanze del grano” il volume che raccoglie i lavori della seconda edizione del laboratorio residenziale di scrittura creativa Raccontare il paesaggio che si è svolto tra Monghidoro e Castel dell’Alpi, sull’Appennino bolognese dal 3 al 10 luglio 2019. Il volume, edito da Laurana e curato da Fiammetta Palpati, Simone Salomoni e Giulio Mozzi, contiene testi di Dino Borcas, Matteo Calzolari, Daniela Campagna, Giuseppe Cancello, Brunella Cappiello, Elianda Cazzorla, Stefania Costa, Adriana Ferrarini, Sara Fiorillo, Carla Isernia, Moira Stefini e Francesca Zammaretti. Qui di seguito, è a disposizione dei nostri lettori il saggio conclusivo, firmato dalla scrivente, scaricabile anche in formato. fp].

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A chiusura di un volume collettivo viene da chiedersi cosa si è messo insieme. In questo caso, figurativamente, da quale progetto, da quali materiali si è partiti, e cosa ha preso forma. Perché l’insieme delle parti, si sa, non è mai soltanto una somma, ma un’operazione diversa, soprattutto relazionale, che dà luogo a un oggetto autonomo. Così è per questa collezione i cui testi rimandano l’uno all’altro, si intersecano, si rispecchiano, si completano a vicenda, si rimbeccano persino, in una molteplicità di sensibilità, di sguardi, di soggettività che provengono da regioni distanti ma convergono nel medesimo luogo. Si dirà che questo è vero per qualsiasi opera collettiva. Bene: lo è tanto più quando nasce all’interno di un’esperienza compartecipata di luogo. Per questa ragione quello che tenete in mano è un testo più collegiale, che collettaneo. E forse, dato lo spirito serio ma gaudente della compartecipazione, finanche, conviviale.

Nel suo complesso questa raccolta è capace di raccontare il luogo che ci ha ospitati? Di contenere e rappresentare questo pezzetto di appennino emiliano dalle dimensioni così esigue da metterne in crisi proprio la rappresentabilità, l’esemplarità all’interno dei limiti tracciati?

I confini entro i quali ci siamo spostati e abbiamo soggiornato comprendono Castel dell’Alpi, una frazione del comune di San Benedetto Val di Sambro, e Monghidoro; in pratica soltanto due dei numerosi municipi montani della provincia di Bologna. L’arbitrarietà di questi confini, che ci ha portati ad includere certe esplorazioni ed escluderne altre, è stata dettata più da incidentalità, da esigenze pratiche, organizzative – una sala attrezzata capace di accoglierci tutti a un prezzo conveniente, come quella che ci è stata poi offerta, per esempio –, che da altro. Se i confini sono, per definizione, arbitrari e convenzionali, i nostri sono stati dunque casuali. E permeabili: che dire di quei testi che richiamano altri luoghi, altre terre, in un sistema di rimandi analogici o affettivi? Certo nel cercare un titolo al volume ci si è richiamati alla robustezza e all’insindacabilità dei limiti naturali, ai due corsi d’acqua: «tra Savena e Sambro» si è scritto – ma solo perché il fiume fa più paesaggio; peccato che al Sambro non ci siamo neanche avvicinati; mentre il Savena, nel punto in cui una frana ne ha strozzato il corso formando un piccolo bacino, è diventato il nostro centro del mondo. Questo libro è lagocentrico – e la disposizione dei testi ne tiene conto; perché è di fronte a questo specchio d’acqua che chi li ha scritti apriva le imposte al mattino e le chiudeva prima di addormentarsi.

Da questa limitata prospettiva abbiamo raccontato il paesaggio appenninico. O, più onestamente, abbiamo scritto dello stare, stanziare, in Appennino, dal momento che Raccontare il paesaggio è il nome del nostro laboratorio di scrittura ma, a dispetto del titolo, esso non produce e non insegna a produrre racconti di paesaggio.

Il racconto di paesaggio, semanticamente, è una forzatura, un calco su pittura di paesaggio; non è un genere letterario e nemmeno una forma testuale; forse, semplicemente non è; cioè non esiste in sé. Raccontare il paesaggio offre uno stanziamento. Una presenza collegiale in un luogo. Genera una scrittura che nasce dall’esperienza fisica di luogo e spesso replica – o nei casi più riusciti modifica – il rapporto che si instaura con i luoghi, intesi come spazi riconosciuti, riconoscibili, identificati, identificabili. Essa è, come primo passo, un’esperienza di conoscenza di sé, del proprio corpo, delle proprie reazioni fisiche ed emotive; è l’esperienza dell’io che comincia a vedersi e rispecchiarsi in un altro da sé, e finisce col rivolgere il proprio sguardo all’interno. Ne scaturiscono testi con un forte carattere intimo, biografico, memoriale, lirico. Per converso l’esperienza di altrove può generare un senso di estraneità; l’io entra allora nei panni del viaggiatore; dell’esploratore, dell’etnografo; accorcia la distanza, prende la parola, racconta, a partire da un’osservazione che tende all’impersonalità, o che ne assume le pose, producendo testi che cercano di mettere in primo piano la dimensione oggettuale. In entrambi i casi l’esperienza di luogo è, prima di tutto, l’esperienza del dove sono (ma anche del quando sono).

Ecco, questo volume si muove tra ritrovamento e smarrimento, tra intimità e distanza; inizia nell’aula e finisce su Google maps.

  L’adesione – fisica ed emotiva – al luogo, soprattutto se scevra di una ricerca preordinata di segno, di portati simbolici, ma piuttosto come accoglienza del dato sensibile, è un formidabile attivatore di memoria, di connessioni; ecco perché nel racconto di luogo ce n’è sempre un altro, e spesso più d’uno. Emblematica in tal senso è la Stanza delle associazioni dove l’identità dell’Appennino bolognese emerge per similitudine o differenza con i luoghi propri dell’autrice – altri monti, altri laghi, altre migrazioni, altre generazioni – e che Francesca Zammaretti sembra riconosce nella spirale di lapidi del Cimitero germanico al passo della Futa, e imprimere ai suoi piani narrativi.

Ecco, l’incontro dell’altro – sia esso luogo o persona – avviene allora non più tra due poli – dentro o fuori, vicino o lontano, centro o periferia – ma in un moto spiraliforme; in un movimento. Come quello che sembra compiere il disorientato viaggiatore di Giulio Mozzi, che riconosce e si riconosce nello Spaesamento del titolo; nel sapersi senza stanza. Ma è proprio questa condizione a spingerlo ad avvicinarsi, a familiarizzare attraverso ciò che rende quel luogo somigliante a tutti i luoghi simili; una assimilazione, che lo rende esemplare nella somiglianza. Questa riconquistata familiarità rende possibile il passo successivo: l’assenza di movimento. Solo fermandosi ad ascoltare – senza nessuna pretesa di Ascoltare – quel luogo apparirà unico. O esemplare per l’unicità. Anche se non è né più né meno significativo di altri, né più né meno straordinario: anche se è soltanto un paesaggio della quotidianità[1].

Questa lezione, questa posizione, echeggia anche nelle brevi prose liriche di Narrazioni per differenti inquadrature: «Chi salva un dettaglio salva un paesaggio intero» scriverà il fantomatico cabalista Levinas, K. immaginato dall’autore del testo, Dino Borcas, nell’offrirci l’immagine di una piuma d’anatra, o di due paia di scarpe abbandonate sulla riva di un lago asfittico, in uno stato di pura esistenza: sospese tra il segno negativo del degrado e quello positivo dell’idillio.  

 

Che sia il viaggio ai confini della terra, o nella nostra stanza, o nel paesaggio che meglio conosciamo al mondo, per prendere parola c’è bisogno di avvertire uno sradicamento, un passaggio brusco da uno spazio che è l’espansione del nostro corpo, ad uno spazio che dobbiamo conoscere per la prima volta, oppure esplorare daccapo perché diventato così familiare da non essere più avvertito se non come prolungamento di noi. Vederlo forse per la prima volta dall’esterno – l’apertura di una camera stagna la definisce Simone Salomoni in Il nostro uomo all’Avana, esprimendo così quella quota di brutalità necessaria alla comunicazione, all’intrusione; la stessa che ci vuole per rompere il riccio della castagna che attraversa letteralmente e simbolicamente il testo. O come scrive Stefania Costa ne La stanza del cane: «Saremo sopra un trattore domani. Io in mezzo agli altri. I trattori hanno il rumore dell’infanzia. Sarò con persone di cui non so niente, immersa in quello che conosco meglio al mondo».

 

Il viaggiatore – anche chi ne indossa semplicemente l’habitus mentale – non incontra solo paesi, abitanti, edifici, montagne, tipicità, prodotti. Si confronta anche e, direi frequentemente, con storie o più precisamente con una narrazione del luogo. Esplorato l’intero pianeta, il luogo che è stato narrato (raccontato, dipinto, fotografato, replicato) è riconoscibile: può essere richiamato all’immaginario, evocato, anche col solo toponimo. Ma anche senza essere topos, ogni angolo sembra possedere una sua narrazione: dalla voce di Wikipedia alla più raffinata e tradizionale guida turistica, fino ad una vasta produzione storico-folklorico-letteraria, spesso a carattere amatoriale, perché ogni angolo di Belpaese ha, fortunatamente, il suo esperto di cultura locale. Anche un’insospettabile mappa – cioè una rappresentazione grafica di un territorio – è in qualche modo una storia, o può contenerne una: come quella di Walter Materassi che apre il volume racconta la nostra, la storia di Raccontare il paesaggio sull’Appennino bolognese. Poi c’è una narrazione orale, in cui può capitare di imbattersi, anche casualmente. Racconti di vita, fatti, episodi in cui la memoria individuale entra in rapporto con quella collettiva, di rappresentazione, di esemplarità; la verità e la Verità. Noi narratori ambulanti – così, ironicamente, il gruppo si autodefinisce – siamo stati anche questo: portavoce di storie già confezionate, già raccontate, persino già scritte, in un territorio, peraltro, che essendo stato lo scenario degli ultimi scontri della seconda guerra mondiale – le tante stragi civili lungo la linea gotica – trasuda di episodi drammatici, cruenti, eroici. È difficile non rimanere irretiti dal fascino dell’oralità, dalle sollecitazioni del dialetto, dalla presa emotiva della storia vera, della vita vissuta, senza scimmiottamenti, senza deboli idealizzazioni. Mantenere la giusta posizione – fermarsi, riconoscersi come punto di osservazione e non – o almeno non solo – come immagine riflessa. C’è riuscita Germana Urbani che ha colto una voce e ce l’ha restituita, con un delicatissimo equilibrio, integra e nitida anche se distante, già nella dispersione dei crolli, della memoria che buca, nelle parole che sfuggono, e che si aggrappano ai versi: la voce e i versi di Terziglio Santi che contrappuntano il suo Prima di sera.

 

La più solida narrazione con cui ci siamo confrontati è stata quella di Matteo Calzolari attraverso il Mangirò. Non si tratta soltanto di una passeggiata enogastronomica come se ne organizzano tante, e nemmeno una geniale trovata di marketing. È il progetto, riuscitissimo, di stringere un patto generazionale – non a caso Matteo si porta appresso per 12 chilometri la sagoma di suo padre Francone – e un patto territoriale; un patto tra la città e il contado, tra Bologna e la sua montagna, tra l’opulenza e la miseria, tra le devastazioni lasciate dalla seconda guerra e quelle della ricostruzione scriteriata dei decenni successivi. Quella di Matteo è un’affabulazione. Non perché sia fasulla, non perché racconti falsità, non perché sia un’impostura (lo è nella misura in cui qualsiasi storia vera, cioè vissuta, una volta raccontata è un’affabulazione; o viceversa qualsiasi affabulazione ha lo statuto di verità – non fosse che la verità dell’esistenza); ma solo perché ciò che mette in luce della propria origine, intesa come terra e come genealogia, è il carattere eroico. Il Mangirò è un’epopea. Racconta le gesta di una ribellione, di un sollevamento e di una riconquista. Essa avviene attraverso la semina di grani antichi, per un pane nuovo, rinnovato, salvifico.

Questo aspetto epico – col tutto un portato sacramentale che si esprime in gesti, liturgie, lessico – si ritrova in diversi testi di questo volume. In Panegirico Moira Stefini ricostruisce puntualmente e poeticamente questa ricucitura territoriale e generazionale attraverso le tappe biografiche di Matteo Calzolari, aderendovi in modo commosso, e commovente. In Ventotto pani di grani antichi, Brunella Cappiello trasforma l’epopea del fornaio Matteo in una fiaba, grazie al gioco combinatorio di diversi modelli e motivi della tradizione fiabesca popolare e colta rivisti in chiave parodica.  Ma anche Di grazia, amico mio e L’antagonista accompagnano il lettore per i campi imbanditi del Mangirò. Con voci narranti e sensibilità molto distinguibili, le autrici, rispettivamente Adriana Ferrarini e Daniela Campagna, raccontano del lungo, e a tratti faticoso, cammino tra i campi, nei termini di un processo di rivoluzione (conversione), e testimoniano della potenza e dell’ambivalenza di questa narrazione. A tratti Matteo Calzolari vi appare come un emulatore, un Mosè che «scende tra la folla e la taglia in due» e poi esibisce la pagnotta appena sfornata come un’ostensione; in altri appare un eretico che prende a spallate la porta della Chiesa di Fradusto per far posto alla sua folla fradicia di pioggia, ma poi si china umilmente alla terra, a spuntare il rovo che intralcia il sentiero; o il fondatore di una nuova (o vecchia) religione ventilata da uno dei personaggi: «La vera chiesa, per me, è il cielo, il mare, le pianure e le affollate città e le solitarie montagne». Questa ambivalenza, questa oscillazione tra sacro e sacrilego, tra solenne e carnevalesco, si ritrova nel finto corteo religioso, sfilato per davvero lungo le strade di Castel dell’Alpi la sera del 9 luglio del 2019; una messa in scena che il nostro gruppo ha organizzato con mezzi e mascheramenti di fortuna; una burla di fronte alla quale la sottoscritta ha cercato di dare (e di darsi) ragione con il pezzo intitolato, appunto, La Processione.

A dispetto di tutte le prese di distanza, la potenza della conversione dovuta a ciò che chiamiamo natura (che perlopiù è ruralità, cioè quell’equilibrio di naturale e antropico che ci appare idillico), o all’esperienza di comunione, o al carisma di Matteo Calzolari – fatto sta che a ovest di Monghidoro, tra le valli e gli altipiani della montagna bolognese, c’è un paesaggio; un paesaggio eroico, una terra promessa. E il racconto più autentico, forse, ce lo ha fatto lo stesso Calzolari con Autobiografia di un forno.

E poi ci sono gli eroi minori, gli incontri del quotidiano, gli antieroi.

Raccontare senza un soggetto umano è difficilissimo. Uno dei meccanismi universali delle narrazioni è l’immedesimazione. «Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica» scrive tra le sue ultime cose Italo Calvino[2]. La reazione immediata a quest’appello è la produzione di testi fortemente descrittivi, o bozzettistici, nei quali trovare un equilibrio e una compiutezza (cioè generare nel lettore la sensazione di trovarsi di fronte a un’opera compiuta, finita) è estremamente difficile. Talvolta si ricorre all’umanizzazione degli oggetti, degli animali, dei vegetali; si attribuisce loro dei sentimenti, dei pensieri, una voce; in questo modo si crea una maggior empatia; così anche ciò che non è umano finisce per rassomigliargli. Non riusciamo a raccontare l’altro se non a nostra immagine, sicché finiamo col riproporre degli altri noi stessi. Personalmente è un’operazione che non apprezzo – questione di gusti, certo. Ma qui non ce n’è, per fortuna.

I racconti di luogo spessissimo finiscono per essere racconti sui personaggi del luogo e questa raccolta non fa eccezione. Sono testi in cui lo sfondo emerge, prende il sopravvento, diventa la nota dominante. Allora i personaggi sono tutt’uno con lo sfondo, come in un quadro di costume: sono tipi. In Un lago e Gino, figlio d’un cane sento le campane – altro pezzo di Stefania Costa – già dal titolo si ha l’impressione di una presa diretta, di un montaggio di voci, di volti, di gente con l’ombrosità della montagna e la giovialità ciarliera dell’Emilia. O, al contrario vediamo persone che saltano dallo sfondo. Sono il contrario dei tipi, perché nascono da lì, e solo da lì. Per dirla con Adriana Ferrarini in California blue(s): «[ha] gli occhi acquosi, sembra fatto della stessa sostanza indecifrabile del lago, ne ha la stessa placida provvisorietà. D’altronde questa è la cifra della gente che popola le rive del loro lago». O come il Nuotatore di Brunella Cappiello, che incarna il suo stesso sogno: una visione grandiosa eppure ironica (anzi: autoironica), poetica eppure prosaica, del lago e del suo trionfale futuro. Vestendo il sogno, come il costume, il nuotatore è in grado di plasmare l’intera valle a sua immagine. 

Il tutto per la parte, la parte per il tutto, questi sono i termini della questione.

Dunque arriviamo ai luoghi come personaggi. Prendiamo The New West (la stanza dei contrasti) di Giuseppe Cancello. C’è una piccola folla che va e viene tra una vecchia casa di pietra, l’aia, la stalla e gli altri annessi agricoli; persone (personaggi) che si avvicendano – si incontrano, si salutano, fraternizzano, si motteggiano, si contrastano – tra le camere da letto del primo piano e la grande cucina al piano terreno, dove si mangia e si gioca a carte. La luce si sposta, gira intorno agli edifici, agli animali, alla vegetazione. Le superfici sono ampie: campi, ghiaino, palizzate, muri di pietra, falde di tetti; gli elementi verticali piuttosto radi – i pali, i tigli, i castagni, le roveri, il lungo collo delle oche. L’ampiezza e il distanziamento determinano la nettezza delle forme, la non sovrapposizione delle ombre, il contrasto dei colori. Tutto coesiste nella nettezza. C’è spazio per tutto. Per tutti. Simone Salomoni, che a Prabitto ci ha passato una vita, ce lo ha descritto come un posto selvatico e accogliente e in questa novella Prabitto è tutt’uno con ciò che accoglie. 

Si sarà ormai capito che il nostro è un laboratorio di ricerca sulla scrittura di paesaggio che non insegue una forma testuale; che rifiuta l’esistenza di un modello capace di esaurire il luogo (per dirla come la disse George Perec quando si mise in testa di raccontare Place Saint-Sulpice, a Parigi[3]), in grado di dare conto, esaurientemente appunto, di quelli che hanno ospitato il laboratorio. I pezzi descrivono, piuttosto, e con strumenti diversi, un’esperienza del luogo; ma testimoniano anche la ricerca, da parte di chi si dispone a narrare, di una qualche essenza – o essenzialità – del luogo; ciò che di esso rimane – il nucleo che si ritiene più autentico – una volta sfrondato dell’impermanenza, della transitorietà, delle narrazioni esistenti, della presenza umana e animale (che poi è proprio il contrario di quel che fece Perec che si limitò ad annotare giorno dopo giorno, seduto al tavolino di un caffè, ciò che transitava – o cadeva – nel suo orizzonte visivo: autobus come nuvole).

Se il tentativo di cogliere l’essenziale nel luogo è perlopiù un’esperienza se non di fallimento, almeno di ineffabilità, la prassi di cercare le parole per le immagini, o le cornici, o i punti di osservazione, o le durate, la ricerca finisce per essere – come scrivevo al principio – uno specchio dell’io che la conduce. Questo sembra accadere a Zoe in Temporale di Elianda Cazzorla, che rimane a cullarsi sul lago in attesa della persona amata, finché non deciderà di muoversi, di inciampare, inzupparsi alla ricerca dell’origine del lago – o più metaforicamente – di una catarsi naturale.

Insomma i racconti di luogo sono racconti di riconoscimenti e di trasformazioni, di prese di consapevolezza di essere in uno spazio e in un tempo; di posizionamenti e proiezioni; cioè di transitorietà. Una delle cose più transitorie è la nostra presenza nel luogo, il nostro io che osserva e dà parola. È proprio questo afflato, questo desiderio di trattenere, ricordare, nominare, trovare le parole per fissare l’istante e trattenerlo in una esistenza infinita, che trasmette la delicata prosa – tra la meditazione, l’elegia e la cronaca – di Paola Ivaldi nella sua Stanza dei doni. E cosa c’è di più ineffabile della felicità di un dono?

Ma di fronte alla sensazione di smarrimento che suscita il paesaggio c’è un altro appiglio – di segno completamente opposto: aggrapparsi alla cornice. Definire un limite. Si faceva così anche quando io ero bambina: prima di scrivere si disegnava la cornicetta o si tirava una linea sotto il titolo. Per questo la stanza ci è venuta bene. Essa è un sistema sufficientemente chiuso da auto sostenersi e sufficientemente aperto da stare in relazione con qualcosa di più grande – e cosa se non una casa? – un piccolo mondo dove l’autore costruisce il proprio racconto su quel luogo, definisce la scala di grandezza, la proporzione, il grado di aspirazione all’esemplarità, e alla rappresentabilità. In pratica una mappa. Con Pantone, Di-stanza, Carla Isernia ha dialogato quasi sempre con le rappresentazioni cartografiche o le immagini satellitari, sfidando, sul piano narrativo, il criterio della distanza che per lei è stata essenzialmente la sensazione che le procurava il nuovo stanziamento del laboratorio. Capire cosa implica, sul piano narrativo, questa dimensione di lunghezza che prevede due punti (in questo caso l’osservatore e l’osservato) ha prodotto minuziose descrizioni di rappresentazioni dentro una cornice. È un racconto fatto, appunto, di mappe, di codici di colori, di segnalini che appaiono e scompaiono. Si dà conto del passaggio continuo da un codice ad un altro – dall’analogia all’icona e viceversa – fino a mettere in crisi il concetto stesso di esistenza di un dato di realtà e dando al lettore quel senso frustrazione e di inafferrabilità che ha mosso l’autrice. È il brano che più mette in crisi il racconto di paesaggio – o il racconto tout court; l’unica concessione al lettore sono degli innesti di cronaca. Eppure il sommarsi di queste osservazioni dall’alto, che non trova nessi se non quelli topologici – destra, sinistra, nord, sud – cosa ripetono? Ci sono montagne e c’è il sole; c’è un laghetto e una chiesa col campanile; ci sono case lungo la strada, prima del ponte; e un camposanto subito dopo. Il più romantico dei paesaggi.

 

Infine. Lo stanziamento a Castel dell’Alpi ci ha messi di fronte ad una delle grandi questioni per chi si occupa, professionalmente, di paesaggio: il rapporto tra forma del paesaggio e attività produttive. La storia dal secondo dopoguerra di questa località è emblematica perché un evento naturale ne ha cambiato, quasi da un giorno all’altro, la morfologia. L’aspetto. Nel 1951 c’è stata una frana – una frana lenta, che non ha ammazzato nessuno, ma ha lasciato scivolare l’abitato che sorgeva a mezza costa, giù nella valle stretta del Savena, così da strozzare man mano il corso del torrente. Nell’arco di settimane – una frazione di secondo per i tempi geologici – l’acqua si è accumulata, è salita di livello, i bordi del nuovo bacino si sono allargati, le correnti placate, l’acqua scaldata. Sulle sponde si è accumulata quella sabbia giallo grigiastra, che altro non era se non la stessa arenaria poco coesa della montagna franata: una riva sabbiosa dove tirare in secca un’imbarcazione, o fare i castelli con secchiello e paletta, o entrare in acqua pian piano.

Dell’abitato a mezza costa è rimasta in piedi, curiosamente, la chiesa e il campanile tra la vegetazione fitta ricresciuta sul costone franato, dove la strada provinciale risale e fa un primo tornante: entrambi sono ben visibili dal basso – dal ponte, dai tetti, dalle terrazze, dalle finestre del nuovo Castel dell’Alpi ricostruito a valle, sulla sponda destra della nuova attrazione. La presenza di un laghetto balneabile, insieme alla salubrità del clima montano e alla vicinanza della città, aveva dato presto avvio a una nuova economia nella società del benessere. La chiesa nuova, è enorme ed ha persino una sala conferenze. È lì che siamo stati ospitati, con tutte le comodità.

Che ne è dei luoghi morti? Io credo che bisognerebbe abituarsi alla morte dei luoghi come a quella di qualsiasi altra cosa sotto al cielo. Non finitudine della terra, ma sepoltura dei luoghi come siamo stati abituati a pensarli, a riconoscerli, e a nominarli.

Talvolta lo sforzo umano cerca una riconversione –  un nuovo utilizzo per le strutture in disuso: è giusto, non si può continuare a consumare suolo, non è infinito. L’albergo allora diventa una casa di riposo; le case-vacanza ospitano i rifugiati extracomunitari. Gli eroi dei luoghi, gli eroi locali, si assumono il compito – talvolta un compito che va oltre ogni ragionevole aspettativa – di rilanciarli nella loro identità, preservarli nell’autenticità. Ma, nel nostro caso, nel caso di Castel dell’Alpi, qual è questa condizione, questa forma autentica? Quella che è venuta giù con la frana, legata all’identità storica agro-silvo-pastorale della montagna – quella in cui funzionavano i mulini sul torrente Savena – o quella più recente, successiva alla frana, in cui sembrò che si potesse prosperare di un certo tipo di turismo familiare, provinciale, che faceva la spola tra la città e la villeggiatura, per il quale si costruivano pensioni, ristoranti, giostrine. Adesso quell’afflusso lì è completamente sparito, o spostato altrove. Il turista qui o è green, o non viene. Va a piedi, o in bicicletta sulla Via degli dei – un sentiero CAI che collega Bologna a Firenze – e passa a pochi chilometri dalla provinciale. Dorme nei bed&breakfast. Consuma panini o mangia negli agriturismi. Potrebbe fermarsi, certo, a fare un bagno nel lago, rinfrescarsi. Ma bisognerebbe che le anse non fossero impaludate, che la discesa in acqua non fosse irta o peggio, scivolosa; che ci fossero un minimo di servizi igienici, di docce. Tutti investimenti che chissà se verrebbero mai ripagati dall’afflusso, eccetera eccetera.

Ecco. I racconti intorno al lago hanno in comune questa vena un po’ malinconica. E languida. Languisce ciò che declina, o che rimane in uno stato intermedio, vivo in virtù di una fissazione, di una rinuncia alla trasformazione, al cambiamento e alla morte. Una certa fissità è un’altra delle note che domina i testi intorno al lago. E Fissazioni si intitola il testo centrale di questo volume. Quando lessi per la prima volta questo racconto – una sorta di intervista narrativa in cui l’autrice, o almeno l’autrice dell’intervista, non dice una parola ma prende molti appunti – mi domandai se al di là della compiutezza del testo esso fosse abbastanza rappresentativo del lago. Cioè: di quel lago. Adesso so che non poteva essere scritto che da quel punto preciso della terra, dell’Emilia – che di laghi, si sa, ne ha pochi. Scritto da una fissazione. Come se il pescatore con la sua amorosa e maniacale dedizione per le carpe vivesse lì, in un limbo, un limbo di riti, solo per non far richiudere il lago.

Non si può insegnare a raccontare un paesaggio, ma si può mostrare un modo – dei modi – per stare nel paesaggio.

Occupare un certo spazio, avere dimora o ricovero. Prendere o riprendere stanza. Dimorare. Stanziare.

 

[1] La Convenzione europea sul paesaggio, firmata nel 2000 dagli stati membri, introduce a livello istituzionale e politico la riflessione scientifica e multidisciplinare sulla questione paesaggistica. «L’originalità della Convenzione – si legge al capitolo I, articolo 2, comma 45 – risiede nella sua applicazione tanto ai paesaggi ordinari, che a quelli eccezionali, poiché sono tutti determinanti per la qualità dell’ambito di vita delle popolazioni in Europa. Comprende in tal modo i paesaggi della vita quotidiana, quelli eccezionali o degradati».

[2] Italo Calvino, Lezioni americane, «Molteplicità», Mondadori.

[3] G. Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, Voland.

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