di Giulio Mozzi
Nel 1979 comperai un disco pubblicato cinque anni prima. Si intitolava Canti e vedute del giardino magnetico, il compositore era un certo Alvin Curran del quale non sapevo niente. La copertina (la vedete qui sopra) era abbastanza orrenda, l’etichetta (Ananda Records) mai sentita prima.
Perchè comperai quel disco? Semplicemente perché mi incuriosiva l’idea che qualcuno avesse cercato di raccontare (lo so, la parola “raccontare” è fuori luogo, in parte; ma io percepisco qualunque cosa come un “racconto”) un luogo o un paesaggio con un pezzo musicale o una serie di pezzi musicali. Certo: a scuola l’insegnante di musica ci aveva fatto ascoltare La Moldava, poema sinfonico di Bedřich Smetana, e ci aveva spiegato appunto che un poema sinfonico era “musica descrittiva”. Ma un disco intitolato Canti e suoni dal giardino magnetico non aveva l’aria di essere “musica descrittiva”, e poi dalle note in copertina si capiva che dentro dovevano esserci suoni elettronici, registrazioni più o meno trattate, campanacci, fischi, sibilii, e il racconto del ritrovamento di un ragno grandissimo: tutte robe interessanti (vado a memoria, ma sono sicuro di non sbagliarmi).
Dunque ascoltai, come anche voi potete fare. E poi riascoltai, e riascoltai, e riascoltai. Dopodiché andai in un giardino, e mi misi ad ascoltare il giardino. Ci misi un po’, prima di riuscire a sentirlo. Come sempre, era tutta questione di pazienza, di allenamento dell’orecchio, e di motivazione. Alvin Curran mi aveva motivato, parecchio.