Bagnanti alla Caserma Piave

Bagnanti alla Caserma Piave

di Fiammetta Palpati

Una delle donne si tirò in piedi e disse che, a quel punto, per lei, era il momento di cercare un bagno. Istantaneamente, anche altre si scossero e l’erba secca di luglio svolazzò dagli abiti e dai capelli. Raccattarono da terra le loro cose e s’avviarono, ciascuna con il proprio cartone della pizza ripiegato, in fila rumorosa per la ghiaia e la lieve ebbrezza alcolica verso l’uscita dei giardini pubblici, aperti fino al completo calare del sole.
Sparsi sulla radura erbosa rimasero le giovani, e i maschi – con le vesciche notoriamente più resistenti: chi sul fianco, chi aggrappato alle proprie ginocchia; in piedi, con le mani in tasca, o seduto sui talloni – braccio teso per la sigaretta fumante, e l’altro tra le cosce, intrecciato al guinzaglio lasco. Il cane è di tre quarti – lucido, nero, e lo sguardo fuori campo di una ceramica da ingresso a grandezza naturale. L’esaltazione per la scampagnata serale, in barba ai circuiti turistici della città li abbandonava, lasciandoli scomposti – per il caldo e la digestione del cibo da asporto. L’insieme còlto nel momento dell’abulia; nell’istante di inerzia in cui tenta di mantenere – o non perdere del tutto – la coesione precedente e prima di averne trovato una nuova.

Lungo il parapetto che cinge il gruppo sull’erba, l’andirivieni lento e orizzontale degli ultimi avventori, da un bastione all’altro, mentre la luce si abbassa sul fianco della rupe. Tre figure sono di spalle, affacciate dalla fortificazione come da un belvedere qualsiasi: sagome su un fondale più chiaro. Una velatura bruna uniforma i giardini: gli incarnati, le gradazioni del tufo, la ghiaia, la vegetazione. Ma l’immenso cielo che occupa la parte superiore dell’immagine è ancora pieno di un chiarore uniforme e leggermente rosato. Una fonte indiretta che promana dal basso, o da lontano, invisibile nel paesaggio se non come luce sublimata; un punto preciso di colore che non può dirsi più azzurro ma nemmeno ancora rosa, che esige l’assoluta immobilità delle silhouettes.

L’eccitazione accompagnava invece il distaccamento in moto in cerca di un bagno; lo seguiva nella marcia verso l’uscita della rocca, lungo le mura giallastre, il torrione circolare, e oltre, attraverso l’arco ogivale lo catapultava sul fossato colmo di terra da aiuola fiorita. Tallonava le donne non tanto sotto forma d’allegria, quanto di determinazione; come accade alle cose piacevoli ma cresciute oltre la misura che cercano da sé uno sfogo – anche se tutta quell’urgenza era dovuta, più che ad altro, all’effetto diuretico della birra.
Si ritrovarono sull’asfalto del parcheggio di piazza Cahen, quasi del tutto sgombro dalle automobili in quell’ora a cavallo tra la massa giornaliera in pullman – che era già andata via – e quella del dopo cena, che lo avrebbe riempito più tardi; lo tagliarono in diagonale, da padrone novelle e spaesate di tanto spazio, e poi rompendo le righe, calpestando impunemente le strisce blu a pagamento, tra il doppio filare di ippocastani e le colonnine dei parcometri; ciascuna scrutando in cerca di un bar, o di un locale o di una toilette a moneta.
La biglietteria della funicolare era chiusa. E così pure quella del pozzo di San Patrizio. Dallo Scalo serpeggiando sui tornanti di via della Stazione, o ascendendo verticalmente lungo la parete tufacea, attraverso i giardini pubblici della fortezza dove avevano trangugiato una pizza e una birra tiepide, non salivano che un’ombra e un’umidità etrusche. Le luci brillanti e il modesto scalpiccio mondano erano tutti più in alto, lungo le strade pedonali e i bicchieri vuoti dell’apericena che accompagnavano l’ascesa dei turisti al Duomo turchese dorato.
La città media invece – quella che agli inizi del millenovecento progettava sé stessa e costruiva i villini borghesi e le case popolari con i medesimi giardinetti – faceva per contrasto l’effetto di un silenzio; un brontolio per il riposo dovuto a una giornata feriale come un’altra.
Sul marciapiedi del lato lungo, in prossimità del Commissariato di Orvieto, si decisero a fermare un passante. L’uomo annuì con convinzione e allungò il braccio: nella caserma, sicuro, ripetette. I volti delle donne esprimevano una certa incredulità – o sorpresa – nel guardare nella direzione indicata. S’avviarono ugualmente, e quando riconobbero l’ingresso militare dalle aquile che – una per lato – sovrastavano i piloni del cancello, richiamarono a voce e a gesti le compagne che s’erano disperse nelle altre direzioni della piazza.
Entrarono tutte insieme e cautamente, poiché sia la guardiola, che i varchi di metallo, che l’enorme arco d’ingresso del corpo di guardia sovrastato dai caratteri sobri di CASERMA PIAVE – erano incustoditi. Altrettanto cautamente, vicine le une alle altre, percorsero l’androne, mantenendosi al centro del corridoio, equidistanti dalle pareti ingrigite e sfogliate sulle quali incombevano gli uffici e gli sportelli, e la sonorità dei timbri di congedo, licenza, libera uscita. Adesso facevano silenzio, ed era la luce bassa e calda del crepuscolo a tener loro dietro, facendo tremolare l’aria. O forse il tremolio era il rumore dell’unico tubo al neon acceso, che si stava scaricando. Scivolavano sul lastrico liscio, usurato dagli scarponi, dalle eco di altolà sissignore, attenti, riposo. Man mano che il gusto di un’intrusione in quella portineria militare si sostituiva allo stupore, i passi delle donne si facevano più audaci e dunque più risonanti nei tacchi estivi.
La cittadella militare si presentava loro sotto forma di uno spazio enorme e dispersivo, più del parcheggio appena attraversato; una gigantesca spianata, innaturale vista l’altezza – e dunque virile e volitiva come certe opere del genio – ma chiusa; lunghi corpi di fabbrica simili, o addirittura gemelli, si proseguivano l’uno nell’altro o si rispecchiavano nei finestroni, nei portici, negli abbaini. Echi e simmetrie severe ma non serie – o viceversa. Nelle caserme – come in molti altri edifici che devono bastare a sé stessi e derivanti dalla tipologia conventuale, a corte chiusa – il fronte esterno è puramente perimetrale: una membrana impermeabile e monotona, spesso oscurata dalle mura, protettiva e inerte. È all’interno, nel cortile racchiuso dal fronte vivo dei dormitori, dei padiglioni, dei magazzini, che la vita marziale e cameratesca – gagliarda e puerile nel gioco di guerra in tempo di pace – si mostra: nella palazzina del comando, nella piazza d’armi e in tutti quegli altri spazi – fureria, spaccio, circolo ufficiali – minori e accessori ma di eguale concepimento.
Sulla sinistra di questa specie di acropoli, nella parte più alta e coincidente col limine dello strapiombo, e assai distante da provarne sgomento soprattutto a vescica piena, le donne vedevano il quadrilatero della piazza d’armi vera e propria. Una corte esatta nei suoi piani orizzontali e verticali, che rifletteva ancora le migliaia di adunanze, battaglioni, plotoni, batterie che aveva ospitato. Di fronte, e maggiormente sul lato destro, laddove la grande opera di sbancamento e riempimento che aveva preceduto l’edificazione della Caserma Avieri aveva assecondato invece la naturale pendenza del terreno, gli edifici erano più bassi e la pulizia delle superfici, la regolarità delle aperture, si dissolveva tra le chiome alte e svettanti dei pini e dei larici, o quelle impenetrabili dei lecci e dei bossi del parco. Il parco, appunto, aveva perduto la forma geometrica delle piantumazioni e delle potature e tendeva ad assumere – nell’ottica alterata dal bisogno – l’identità di un boschetto e, ancora più in là, verso il dirupo, di una selva.
Un punto di fuga verde e laterale per chi si trova in mezzo alla strada; in mezzo a quello che doveva essere stato il circuito di preordinate e veloci manovre militari intorno alla piazzola col monumento ai caduti, il fuoco sacro e l’asta per la bandiera. Ma che alle donne non diceva proprio niente sul bagno pubblico. Sicché, superato il primo spaesamento, si dispersero in perlustrazione. Perché la necessità funziona così: nel momento in cui avverte la prossimità di essere scaricato preme maggiormente.
Una gridò d’averlo avvistato. Le altre cinque accorsero. La porta si riconosceva per il cartello che vi campeggiava. E non tanto per le icone dell’omino e della donnina, una accanto all’altra, ravvicinate, e la sottostante scritta (TOILETTE); quanto, piuttosto, perché quel foglio A4, stampato in bianco e nero e poi infilato in una bustina trasparente, che aveva l’aspetto di uno di quei segnali scaricabili gratuitamente dalla rete dava loro ragione di tutta quell’esperienza di confusione e promiscuità che avevano avvertito entrando nella caserma.
La prima ad arrivare piegò la maniglia e spinse.
Provarono ancora; più forte. Smossero avanti e indietro, e nel silenzio di quello spiazzo ampio ma racchiuso, la porta di vetro e metallo produsse un gran clangore, che salì verso l’alto, nel cielo della sera estiva, e poi si disperse lontano, verso il parco inselvatichito; e un rossore, poiché denunciava la non appropriatezza del luogo, del bisogno, e dell’urgenza del bisogno. E forse già qualcosa di più.
Allora bussarono, come se fosse concepibile una presenza umana all’interno, o un fantasma di essa. I colpi echeggiarono nella profondità del locale, restituendo l’eco di lunghe vasche bianche; e orinatoi, tanti, ordinati, in fila; e acqua abbondante che scorre in continuazione e porta via l’urina, a valle, senza bisogno di sciacquone, perché questa caserma era stata concepita con lo stesso spirito con il quale la patria Italia costruiva gli istituti di igiene e profilassi. E le grandi opere.
Ma, allo stato attuale, sei donne erano di fronte ad una porta serrata, con i volti e le pelvi contratte per trattenere, o meglio far risalire, il flusso nella vescica, mentre era loro chiaro che tornare indietro sarebbe stata un’impresa rischiosissima.
La prima si volse al piazzale; esaminò gli edifici intorno: erano pieni di aperture a vetro, senza persiane; tre ordini di finestroni e lucernari che sparavano fuochi incrociati. S’incamminò ugualmente, risoluta e spavalda. Le altre la seguirono obbedienti. In fila.
Le figurine, viste da una delle camerate, sarebbero state una linea variopinta che si spostava sull’asfalto nerastro in direzione del boschetto. Sparirono sotto le chiome dei sempreverdi e tornarono alla luce nello spiazzo polveroso che circondava la fontana con le aquile dell’aeronautica – il fulcro di quello che doveva essere stato un rigido tentativo di amenità: lunghe panche di cemento per la naja, le visite dei parenti al giuramento, le promesse e le cartoline dalla caserma.
La capofila arrestò il passo. Le altre le si disposero intorno, di spalle – petto in fuori e mento in alto, alle finestre. Dietro i vetri un vuoto palpitante, un fremito d’impazienza, da voyeur. Silenzio. Immobilità. Poi fulminea la donna si aprì un varco tra le gambe delle compagne che la coprivano e sgattaiolò verso un cespuglio. La fila si srotolò. Una dopo l’altra ciascuna trovò un canto per sé – un anfratto tra i bossi, un tronco cavo, una garitta – e con le mutande tese tra le cosce aperte urinò. Sei getti caldi colpirono violentemente la terra assetata di un parco abbandonato, in luglio, schizzando sulle caviglie; serpeggiarono tra le foglie cuoiose del leccio, lungo la pendenza del terreno, pericolosamente, verso lo strapiombo, e si ricongiunsero infine a formare un’unica pozza di urina femminile.

Quando riemergono, una dopo l’altra, alla luce serale, l’andatura è molle, inconcludente e felice. Di sollievo, certo. Ma anche qualcosa di più che non sanno spiegarsi. La donna esile con la gonna lunga è curiosa di sapere cosa c’è in fondo al parco, dove tutto finisce bruscamente contro una cortina di alberi fumosi. La si vede camminare di spalle, lungo il viale alberato – la passeggiata dei soldati – facendo ondeggiare le anche strette. La donna con i pantaloni di seta d’impeto la segue, leggera come non osa essere; perché la compagna è bella, e coraggiosa, e desidera toccarla – o forse una coppia che avanza verso un fondo oscuro è più suggestiva di una sola figura. La terza le vede e grida loro di voltarsi, ché avrebbe scattato una foto in quel viale con le fronde incombenti. Il sole si è ritirato del tutto dietro la rupe: la donna esile fa una giravolta – la gonna rossa s’allarga a campana – l’altra l’ha raggiunta e le cinge la vita con un braccio, sfiorandola appena. Tra le due figure avrebbe potuto starcene una terza, con le gambe bionde e l’abito color cielo. Ma delle altre si sentono solo le voci giocose tra i tronchi.
Si trattò di gesti, di fluidità, soprattutto. Di corpi in cerca di essere nello spazio violato e ricomposto, più volte, nei millenni. Di conquiste. Di ombre umide e fumose dei lecci e dei bossi inselvatichiti, di raggi di sole radenti che penetrano il boschetto. Sul fondo una garitta: un soldato vuoto che rimbomba, in cui giocare a nascondino.
Quando prendono la via del ritorno – visitare finalmente la città da visitare – desiderano un ricordo; non tanto il ricordo del momento – una pisciata all’aperto come un’altra – ma di quella dissacrazione che le ha inselvatichite e trasfigurate. Istintivamente scelgono il corpo di guardia, in memoria inconsapevole di tutte le fotografie in divisa fatte sotto la cornice pulita di un arco a tutto sesto – momenti pubblici o privati destinati alla struggente nostalgia. Scatto tre volte. Nel primo, il gruppo posa nella posa dei gruppi: strette le une alle altre, braccia intorno alla vita. Ma già nel secondo i corpi si sono, inaspettatamente, distanziati, lungo la soglia. La figura giunonica si appoggia al pilastro d’angolo. Sull’angolo opposto quella minuta come una terracotta minoica. Le donne non si toccano; ma occupano tutta la luce dell’arco. Esprimono: esitazione. È nella terza immagine che compongo, che la figura centrale – mediana – si flette all’indietro, spalanca le braccia e afferra le mani delle compagne ai lati. La cordata è tesa e completa. L’arco è chiuso.

Non si vede nulla, nulla del gorgoglio nel tufo. Dell’umore ammoniacale delle bagnanti che si raccoglie e cola lungo le porosità, le feritoie, gli antri, le grotte e le gallerie naturali e antropiche della rupe vulcanica. Lo si può immaginare ricongiungersi al fiume che bagna il piede di questo enorme e isolato residuo di magma solido e collassato. O rifluire nel largo bacino, il “conservone” dell’acqua, con il quale si alimentò a monte, per oltre cento anni – e fino ai Novanta, quando il marchingegno idraulico dei contrappesi fu sostituito dall’elettricità – la funicolare di Orvieto: una sola corsa di pochi minuti supera i 157 metri di dislivello del lato più basso della rupe. Un movimento inverso a quello che si rese necessario per bucare la roccia, trovare l’acqua e portarla su, quando il papa scampato ai Lanzichenecchi e rifugiato nella Rocca – in quella rocca dove ho lasciato il nostro gruppo sull’erba in attesa – commissionò ad Antonio da Sangallo il pozzo che doveva servire all’approvvigionamento idrico in caso di assedio. Il pozzo che i Servi di Maria chiamarono di San Patrizio in memoria della leggenda del santo che dalle profondità della terra ascendeva al Purgatorio. Ed è proprio sul convento e sull’enorme vigna dei Servi di Maria che insiste, oggi, la Caserma Piave, disarmata, in attesa di nuova destinazione d’uso, e destinata – temporaneamente – a parcheggio. Il “casermone” degli orvietani, che lo costruirono in soli quattro anni, dal 1929 al 1932, con l’entusiasmo per il sacrificio o la lungimiranza della fortuna a venire, e uno squadrone di tecnici del cemento armato che veniva dal nord.

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