La piuma del paradiso

La piuma del paradiso

di Adriana Ferrarini

[Prosegue la pubblicazione dei Luoghi della distanza, i racconti nati nel laboratorio omonimo che si è svolto sotto la guida di chi scrive, nell’autunno 2020. Il lavoro si è incentrato sull’esplorazione dell’identità dei luoghi e sulla formulazione di una sorta di nuova categoria per quelle porzioni di spazio non più riconoscibili nel nome, nella forma, nella funzione: i luoghi inesistenti. Trasformato, traslocato, seppellito, dimenticato, musealizzato, quel luogo non è più; è morto, o è in un limbo. In questo racconto Adriana Ferrarini, narratrice del paesaggio, dà voce a una immaginaria ricoverata dell’Ospizio Marino – l’edificio che sorse sul Lido di Venezia a metà del XIX secolo e destinato alla terapia climatica dei bambini affetti da scrofola. A colpire non è tanto il destino – altalenante – del complesso architettonico, che ha conosciuto momenti di grande espansione (nel 1933 venne spostato e notevolmente ingrandito) e altrettanti di declino fino all’attuale stato di abbandono – un destino simile a quello di edifici analoghi, quanto la singolarità della sua posizione. Agli inizi del XX secolo, infatti, l’Ospizio Marino fu affiancato, a destra e a sinistra, da due nuove costruzioni che sovrastarono in tutto e per tutto la colonia climatica.

In copertina una fotografia proveniente dagli archivi della Croce Rossa Americana, ritrae un dormitorio per bambini allestito durante la guerra 1915-18, dalla Croce Rossa americana, nel pianoterra di un hotel del Lido, con i letti rimossi probabilmente dall’Ospizio Marino, in quegli anni non utilizzato. La spiaggia del Lido e l’adriatico si intravedono appena oltre le finestre sul retro”.

Le immagini all’interno del testo, invece, raccontano una storia diversa, ma a quello affine. Si tratta dei pregiati tessuti e tappezzerie veneziane Fortuny, in auge nei primi anni del Novecento. Buona lettura. Fiammetta Palpati]

Ai nostri devoti e insigni Benefattori
e gentili Autorità di Governo 
che hanno fatto di questa trista barena
buona solo per le zanzare 
un Paradiso 
Rivolgiamo la nostra gratitudine e un’umile Preghiera
  

Una mattina tutta azzurra ci ha mostrato le montagne dietro al campanile di San Marco e tutti gli altri campanili, un po’ storti un po’ dritti, così tanti che noi non ci si poteva credere, e forse era solo un sogno perché quando il sole è alto nel cielo, qui tutto si scioglie, diventa di vetro, e non si sa più cosa è vero e cosa no.

«Ecco le vostre montagne, voi venite da lì, e anche questa sabbia viene da quelle adamantine alture, il ghiaccio e la pioggia le grattugiano fini, una polvere che il Piave porta giù fino al mare. Quest’isola non era che una striscia di polvere, una duna buona solo per farci orti, e a noi giudei, come ci chiamano, per stracciarci le vesti e recitare il Kaddish in onore dei nostri morti. Guardate ora il miracolo, quei magnifici palazzi, re e regine vengono qui per godere di questo mare, come voi, poveri montanaretti impiagati.»

Così ha detto il dottore. E con il braccio teso, dalle montagne si è girato giù verso la spiaggia, indicando i due hotel luccicanti. Ma il nostro Ospizio marino, che sta nel mezzo, neanche in punta di piedi si vedeva. E per fortuna. I bambini guardavano con la bocca pendula, zotici scrofolosi che non sanno neanche di stare al mondo, in un posto così squisito. Sia resa grazia all’infinita bontà dei cuori caritatevoli dei nostri benefattori e qui appunto inizia il discorso. E l’umile preghiera.

Ma dirò prima che noi non ci ha portato giù il Piave, come questa sabbia fine, bionda e calda tale e quale il pane appena uscito dal forno della Mistica, noi ci ha portato giù il treno e nessuno di noi aveva mai visto un treno e si aveva paura, con tutto quel rumore di ferro e il fumo e come correvano via veloci dal finestrino: le case, i monti, i paesi, non facevi in tempo a vederli che già se n’erano andati.

«Andrete a fare i bagni di mare, brutti musi deformi, e guardate di comportarvi pulito, perché laggiù in pianura ghe sé tanti siori e mangiano la carne dei bambini cattivi, senza parlare dell’uomo nero. E te, Antonietta sta’ attenta, che sei la più grande di tutti e hai più giudizio.»

Così ha detto e mi ha detto la suora e infatti il figlio della Genoveffa, che l’avevano mandato giù a Feltre a imparare il mestiere del caregher, che poi le vendi in pianura, le sedie impagliate, quando è venuto il disgelo l’han trovato con il cranio sfasciato, la pancia mangiata, giù alla Muda.

E quando il treno si è fermato, allora abbiamo visto il mare. Ohhh, hanno fatto gli orfanelli, come si poteva sapere che è una bestia così grande? E che diventa del colore del cielo e tutto d’oro e rosa e viola? Come anche la Zuìta nelle sere di bello, che ha i colori del paradiso…, no, i colori della veste degli angeli del paradiso che stanno dietro all’altare. Solo che il mare è così grande che ci finisce dentro anche il cielo.

Nessuno di questi orfanelli rachitici aveva mai visto il mare e a volte, lo so, quando sono distesi sulla brandina con gli occhi chiusi perché il sole li brucia, gli viene paura che se li riaprono, tutto è scomparso: il mare un sogno, la sabbia un sogno, il palazzo di cristallo, il lunapark, le schioppettate, la musica, le luci, tutto un sogno, non c’è più niente, ed è l’alba, è inverno, fuori è buio e freddo e ti devi alzare, nel tabià a mungere la vacca e poi prendere l’acqua ghiacciata, la legna, e accendere il fuoco. E i sogni non contano niente, meno di una tazza di neve.     

Distesi immobili al sole, così le ossa diventano dritte, immobili anche se il sole li brucia e la sera le gambe e la schiena sono più rosse dei pomodori, che nessuno di noi li aveva mai mangiati e sono buoni; e poi la pelle viene via come un vestito, vuole dire che era una pelle vecchia e quella sotto è nuova di zecca.

E anche quando viene la notte, non è come da noi altri che il buio entra dappertutto, cancella via tutto, la tavola, la bottiglia, neanche le mani ti vedi e se ti scappa da fare pipì, impari cosa vuol dire essere cieco come il Giulio del Dario del Celentone che si perde per strada e bisogna andarlo a cercare.  Qui, quando scende la notte sulla laguna e sul mare, si accendono così tante luci, tale e quale il paradiso, e anche se il dottore dice: dormite, questi sparuti e deformi orfanelli non riescono a chiudere gli occhi.

«Il Grand Hotel Des Bains e l’Excelsior, le algide candide forme del ricchissimo Nord e le fantastiche architetture di cupole e minareti Moghul, su quest’isola c’è tutta la favola del mondo e tutto il mondo da favola si raccoglie su queste spiagge benigne: oh, sapeste, fanciulletti malati, sapeste in quei palazzi come transatlantici immobili, quante centinaia di camere e suite e salotti, corridoi infiniti, salette rivestite di specchi e velluti che salgono verso l’alto, in alto, ancora più in alto, e terrazze e scalinate e saloni e specchi e vetrate, e per tutta la notte tutto è acceso di luci. E ovunque camerieri impeccabili volteggiano con vassoi d’argento in bilico su un palmo, scivolano lungo luccicanti parquet, silenziosi tappeti, si lasciano sollevare da un piano all’altro e finiscono dentro agli specchi dove coppe di champagne si moltiplicano vertiginose, si inchinano davanti a duchi e principesse e attrici, donne di una bellezza da fiaba, coronate di diamanti e piume di struzzo che portano al guinzaglio pantere più nere della notte con collari d’oro e smeraldi.»

Così a volte ci conta il dottore, e una mattina è arrivato uno di quei camerieri correndo, e chiedendo di lui, che un loro ospite illustre – dell’Excelsior – ha detto, e tutta la bocca e la faccia sottile si è illuminata nel dire la luminosa parola, un marajà, ha detto, un  sovrano, aveva avuto un malore. Allora il nostro dottore si è lavato molto bene le mani, si è aggiustato i baffi allo specchio e lo ha seguito con la sua valigetta. Il lacchè era elegante e leggero, il dottore gli andava dietro un po’ curvo.

«I signori vivono di musica e champagne, ci ha spiegato, ballano fino al mattino, si addormentano sfiniti su una poltrona e un servitore dalle braccia forti li porta su in ascensore e li mette a dormire. In ogni salotto si tengono concerti, violini e pianoforti, trombe e chitarre non ammutoliscono mai, perciò a ogni ora folate di queste musiche sublimi arrivano fino a noi.»

Walzer, polka, quadriglia, tango: il dottore ci ha insegnato anche queste parole, lui alza il dito, ascolta, ha orecchie grandi sotto al cappello, ecco, ora ballano il tango, e questa è una polka di Chopin, un walzer di Strauss. Il dottore sa tutto. Ha un viso triste, il dottore. Dorme con noi, ma in una stanza da solo. La cuoca dice che sua moglie si è presa il colera e lui non l’ha saputa guarire. Neanche la sua bambina. Era bella bionda vestita di velluto blu, non come noi scrofolosi, dice la cuoca.

E i signori sorridono sempre. Si fanno anche le foto dove i loro denti luccicano come stelle. Anche a noi ci hanno fatto una foto, non a tutti, quelli con la faccia piena di pustole, il collo gonfio e storto, brutti come il demonio, no, gli hanno detto, voi, meglio se vi mettete da parte e agli altri invece han detto: fermi lì, fanciulletti rachitici, fermi lì, come se potessero muoversi, che se appena uno alza la mano, se le busca di grosso, fermi lì e sorridete e loro hanno sorriso senza denti e con la testa rasata. Meglio se non sorridevano.

E qui arriva il discorso. Perché vogliamo ringraziare i nostri benefattori con il cuore nelle mani, che hanno avuto pietà di noi poverelli malati e deformi, e hanno fatto collette di beneficenza e così anche noi possiamo fare i bagni di sole e di sabbia e di mare e mangiare cose squisite: il latte e il pane la minestra, la carne allessa e il pane e il vino e anche  il pollo arrostito. Così buono! E ringraziamo anche i nostri benefattori che sono venuti a vederci e sono usciti meravigliati insieme e contenti, qualcuno più meravigliato che contento, più spaventato che meravigliato. E una ragazza giovane e bellissima con l’ombrellino bianco che le faceva ombra sul viso, piangeva. I capelli biondi fatti di luce. Poveri piccoli poveri piccoli diceva, le sue manine sottili nei guanti di pizzo, poveri piccoli. E a noi si stringeva il cuore di vedere una signorina così benefattrice e così triste, fosse anche a causa nostra. E qui arriviamo al discorso.

Anche la notte in questo nostro dormitorio entrano le luci delle lance spumeggianti, le scie di profumi e risate delle macchine in corsa, delle feste in spiaggia, il ritmo dei balli. E la mente in sonno insegue il trenino che si tuffa giù dalle montagne russe e risale e di nuovo si tuffa, il Luna park, montagne finte che sembrano vere, e le scale d’oro e i palazzi di cristallo e le principesse di piume e i valorosi capitani d’industria e i duchi sulle sfreccianti luccicanti vetture: è bellissimo, ma è troppo, troppo bello. E questi fanciulletti – come dice il dottore – deformi e sparuti e malati non riescono a chiudere occhio e sognano cose impossibili e si svegliano delirando, qualcuno si alza, crede sia già mattina, vuole andare in acqua, fare il bagno di mare e, pazienza che con una rata di botte gli si rimette giudizio in quel testone vuoto e rasato, ma a volte tirano di quegli strilli che anche gli altri si svegliano e allora, altro che paradiso, questa è la sagra dei diavoli.

E solo per fare un esempio racconterò dell’altra notte: un bambino malato di scrofola e rachitide salta sulla finestra e canta vardé, mi so n’oxèl,  vardé, como che xola la péna, e ha in mano una piuma, no, non di gabbiano, neanche di piccione, una piuma mai vista, lunghissima, colore del sole e della neve, leggera leggera, volava molle.

È di un uccello del paradiso, ha detto il dottore al mattino scuotendo la testa, ancora più triste di sempre. E per tutta la notte non c’era modo di metterlo quieto, lui e la sua faccia bubbolosa, tirava gridi che neanche quando si scanna il maiale, poi, di colpo ha rovesciato gli occhi, è caduto tale e quale un pezzo di legno e al mattino non delirava più, era quieto, la fronte fresca, no, fredda, un po’ troppo quieto. Ma pazienza! Già, non venissero qui, che destino avrebbero? Un bambino con i capelli neri come il lucido da scarpe e il giorno prima se le era prese per bene, e ci voleva la lezione, ma chi poteva immaginarsi che una piuma se la fosse nascosta?

Brutto sgorbio deforme che quando sul lungomare era apparsa la principessa, si era alzato dalla brandina e arrancando con le sue gambe storte, era arrivato da lei. Non era una principessa, ma una Etuàl, che vuole dire una Stella, una Ballerina che tutti i principi e anche i re si inchinano a lei e quando per entrare in acqua ha sollevato le veste lunga bianchissima, così bianca che neanche la neve, potevi diventare cieco a guardarla; e quando ha sollevato l’orlo, lei no, non aveva le gambe storte come questi pollastrelli rachitici, scarti del creato che io mi chiedo perché Dio li mette la mondo, mi sia scusata l’ingiuria, non vorrei fosse bestemmia, la cancello, e lui il bambino lucido nero delirante era vicino a lei con le sue gambe ad arco, che anche fosse stato al sole fino a che le montagne sono tutte grattugiate nel mare, non sarebbero mai diventate dritte, come quelle della Stella luccicante di bianco e di piume. E noi allora, con gran dispiacere l’abbiamo vista, la Stella, arretrare, portarsi una mano alla bocca e un’altra sul cuore e le piume ondeggiavano come un uccello impazzito. E invece è caduto in mare, il cappello, e non so come quel rospetto rachitico sia riuscito a rubarlo e scappare.

Dal palazzo in mezzo al mare, di fronte all’Excelsior, venivano le schioppettate e poi il tonfo e gli applausi: i piccioni con la coda mozzata cadevano in acqua dopo il volo scombinato, tutti applaudivano, si accendeva la musica a tratti. E il giorno dopo in spiaggia a mezzogiorno, quando al sole tutto diventa di vetro, anche l’aria, e siamo tutti bicchieri su un vassoio, mi sono sognata che anche noi ci avevano messo dentro una scatola, tiravano il filo, la scatola si apriva, noi scappavamo, ma il fucile era più veloce di noi. L’ho sentito dietro alla schiena, sono morta sparata, ho pensato: è la guerra? Ché il dottore il giorno prima aveva detto scuotendo la testa, È scoppiata la guerra, e invece era solo la suora che mi dava una pedata, lì dietro, che era ora di servire in tavola.

E così io mi chiedo, perché dare scandalo, con i nostri visi butterati e scrofolosi, con i rosari di caviglie e polsi deformi a queste creature squisite di veli e piume, a questi signori e duchi armati delle loro vetture, avvolti nei loro sogni? Che vivono in case di cristallo portati in braccio da bei camerieri, su terrazze coronate di fiori?

Perciò insigni e devoti benefattori, vi supplico, trovate per noi un’altra spiaggia, lontana da questa, una spiaggia che di notte avvolta nel buio protegga i nostri oscuri destini e noi si possa ancora fare i bagni di mare e di sabbia e di sole, ma senza portare danno a queste squisite creature. Scintillate scintillate voi in vece nostra, scintilla bel mondo, noi da lontano guarderemo la scia, ne godremo protetti dal nostro buio.

Con devozione, Antonietta Diotiguardi, in nome dei poveri scrofolosi dell’Ospizio Marino del Lido.

Venezia, addì trentuno Luglio a.d. 1914

NdA

Da metà Ottocento fino allo scoppio della prima guerra mondiale, fu quasi un delirio collettivo: la fame di piume da indossare spinse velieri e piroscafi a solcare gli oceani verso le isole più remote perché tornassero con casse e casse della merce preziosa.

Così il cargo del Titanic, oltre a casse di liquori, carne, patate, tè, limoni, racchette e palline da tennis, cinque pianoforti a coda imballati, e molto altro, comprendeva anche dodici casse di piume di struzzo e undici di piume di altri uccelli, assicurate per un valore con cui solo i diamanti potevano competere.

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