Dissolvenza al bianco (o della Val di Luce)

Dissolvenza al bianco (o della Val di Luce)

di Cecilia Lolli

[Cominciamo oggi, con questo racconto di Cecilia Lolli, la pubblicazione dei testi nati nel corso della terza edizione del nostro laboratorio di sperimentazione di scritture di luoghi e paesaggi, iniziata a settembre 2020 e in via di conclusione. In “Raccontare il paesaggio, 3 – Luoghi dalla distanza” ci siamo concentrati intorno ai luoghi inesistenti. Con questa espressione, soprattutto con questa attribuzione, abbiamo cercato di forzare semanticamente un concetto indiscusso cominciando con il chiederci se l’identità del luogo, del suolo, della porzione di spazio, sia davvero qualcosa di individuabile (e conservabile) nel nome e nella funzione, al di fuori di una dimensione temporale circoscritta. Insomma, se i luoghi muoiono. Se i luoghi muoiono cosa ne è dello spazio che lasciano? Un vuoto? Un cumulo? Un monumento funebre? Una discendenza? In questo racconto Cecilia Lolli racconta non solo della val di Luce – stazione sciistica appenninica nata sulla scorta di un progetto grandioso che non ha retto ai rovesciamenti politici né ai cambiamenti climatici – ma anche di un luogo, di un rifugio, di una salvezza, che nasce per non durare, per non lasciare traccia. Un luogo tanto concreto quanto immaginario come lo sono le capanne che fanno i bambini, con le sedie e le coperte. Buona lettura. Fiammetta Palpati]

Che la val di Luce si trovasse entro i confini dell’Emilia, solo con un lembo fuori, in Toscana, a Matilde fu chiaro quando Francesco invece di svoltare per l’autostrada tagliò l’ultima rotonda di Sassuolo scivolando verso Fiorano Modenese.

Ad eccezione di annate da record, la val di Luce sopravvive oggi grazie all’innevamento artificiale; in estate e in autunno gli escursionisti più esperti e con le ginocchia buone possono abbandonare i sentieri e scendere per i pendii ripidi delle piste nude. Nelle notti invernali, fuori dalle finestre, la luce della luna aderisce alla neve sparata dai cannoni. Nel tratto terminale di via val di Luce sono stati aperti diversi parcheggi a servizio delle piste, così che solo raramente si è costretti a fermare l’automobile a lato della carreggiata, lasciandola ai pedoni per camminare sulla neve sporca, goffi e scomodi negli scarponi rigidi e con gli sci in spalla. La circolarità della piazza pedonale, nel vapore chiaro che sale dai campi la sera, finisce inghiottita dalle cantine.

L’anno nuovo compiva due giorni e Matilde era arrivata in ritardo alla partenza. Li aveva trovati perfettamente composti, con le portiere chiuse. Francesco l’aveva salutata con la mano dallo specchietto. Giulia, accanto, con la cintura già allacciata, si era voltata appena. Matilde si sistemò sul sedile posteriore, nel centro, e per un po’ si sporse in avanti per cercare di seguirli mentre parlottavano tra loro, di persone che le erano sconosciute. Era concentrata sulla prova che l’attendeva. Ripeteva mentalmente il protocollo che aveva imparato. Seguendo il corretto schema d’azione, avrebbe ritrovato l’apparecchio sepolto nei tempi consentiti. Intorno ai quindici minuti, e comunque sotto la mezz’ora, dicono le statistiche, è il tempo medio di sopravvivenza sotto una valanga. Un lasso inferiore a quello che impiega mediamente il Soccorso Alpino per attivarsi. Era importante saper agire in autonomia, con un metodo semplice e collaudato. Collaudato. La pila. Matilde si sbottonò velocemente il giubbotto.

«L’ARTVA è carico», disse ad alta voce.

«Lo stile non va a pile» le fece eco Giulia.

Risero tutti e tre. All’incirca posizionato tra il diaframma e i polmoni, non a diretto contatto con la pelle, ma sopra la maglia termica, indossavano ciascuno il proprio Apparecchio di Ricerca Travolti da Valanga.

Giulia fece un commento serio sull’abbigliamento invernale, sui colori più adatti per assicurarsi di essere sempre ben visibili in mezzo alla neve. Matilde a quel punto si sporse in avanti e prese a dire dello zaino che avrebbe voluto comprarsi. Verde carico, tra i più costosi, dotato di sistema ABS attivabile in caso di valanga.

«Quel modello è molto pesante, troppo», le rispose Francesco guardandola dal retrovisore. «Devi essere sufficientemente lucida per tirare la leva in due-tre secondi, con la valanga che ti incombe addosso». Matilde arrossì. Una curva a gomito la sospinse verso la portiera. Quando si ricompose lo sguardo di Francesco era di nuovo sulla strada.

In piedi nel bar nel quale si erano fermati per un caffè, con la tazzina sotto il naso, Matilde dissotterrò l’argomento.

«Che zaino compreresti per te, se potessi scegliere?».

Giulia era in ascolto e si affrettò a intervenire.

«Non intendeva dire che non devi comprarlo».

Francesco appoggiò la tazzina vuota sul bancone, con una mano sulla spalla di Matilde prese la via della porta.

«Investi in un ARTVA più evoluto, e poi esercitati tutte le volte che puoi.»

Quando ebbero percorso per un lungo tratto via val di Luce, serpente nero in un sottobosco bruno, Francesco parcheggiò la macchina tra la ghiaia e le pozzanghere. Passarono sul retro del ristorante e presero il sentiero per il bosco. Il terreno era sodo e patinato di ghiaccio, nel complesso piuttosto agevole. Camminavano sparsi. Svoltarono l’angolo del self-service a bordo pista.  Da quel momento il sentiero andava a morire e loro tre risalirono una rampa di rocce e sfasciumi, che andava restringendosi in una cengia. Il volume della neve cresceva sotto gli scarponi sporchi di fogliame. Si erano allontanati dalle piste battute per inoltrarsi nel loro campo giochi privato. Arrivati al Passo D’Annibale si alleggerirono degli zaini. Da quel momento in poi, ciascuno a turno, avrebbe seppellito il proprio apparecchio mentre gli altri due, in coppia, avrebbero dovuto rintracciarlo ed estrarlo come si farebbe per una persona travolta. Un’esercitazione; la simulazione di un salvataggio; un nascondino. Quel giorno non c’erano cime da raggiungere, né anelli da chiudere. Si concessero una sola fotografia, panoramica, dal rifugio, poi Francesco uscì, si slacciò il cinturino, l’ARTVA venne via dal suo petto, e lui cominciò a inerpicarsi, ravanando, fuori dalla traccia innevata.

Matilde e Giulia erano rimaste dentro – Giulia in piedi, ferma nell’anticamera. Matilde, nel salone, affacciata, con le mani sul cornicione di cemento della finestra, nel punto in cui il vento negli anni aveva fatto saltare prima i vetri, e poi il telaio. Qui, ha casa il vento, si disse Matilde. Erano solo quattro mura, un punto panoramico dalla val di Luce alla valle delle Tagliole. Matilde notò che alla base del muro vegetavano due cumuli superstiti di neve gelata.

Il nome val di Luce, per quella che era conosciuta come valle delle Pozze spuntò, per essere presto accantonato, tra gli anni Trenta e Quaranta, quando l’architetto-podestà locale ebbe in mente di erigere un enorme faro, in quota. La denominazione val di Luce venne poi riesumata nel dopoguerra quando la zona, orfana di podestà e di faro, fu però dotata di nuovi impianti di risalita. Del luminoso progetto dell’architetto-podestà alla sua morte era rimasto un Grand Hotel, che decenni dopo fu reso un più modesto ristorante self-service e, al Passo d’Annibale, lo scheletro – appunto – di un rifugio.

 Avrebbe seguito fedelmente la freccia di direzione. A una distanza di tre metri si sarebbe chinata sulla neve, cercando di mantenere l’ARTVA parallelo al suolo, e di muoversi come su di una griglia, senza ruotare più su sé stessa. A settanta centimetri avrebbe lasciato penzolare l’ARTVA dal polso per solcare il manto con la sonda e rintracciare l’apparecchio nelle profondità del manto nevoso. Avrebbe infine cominciato a spalare da una distanza doppia rispetto a quella indicata dalla sonda, per simulare meglio un disseppellimento per gradi; e non piombare sulla testa del finto sepolto.

   Il cronometro segnò lo zero. Matilde scese dal muretto, prese la sonda, la pala ancora ripiegata su sé stessa e s’incamminò, gomito a gomito, con Giulia. All’inizio pareva una caccia al tesoro. Fecero diverse prove, tenendo i tempi di ciascuna. In un’occasione il tempo di recupero schizzò sopra la mezz’ora, ma solo perché Giulia e Matilde si ostinavano a cercare per terra, quando l’ARTVA di Francesco era appeso a un ramo. Tutto andava sufficientemente bene, erano stanchi ma euforici e decisero di concedersi un’ultima prova prima di portare a casa la giornata. Toccava a lei. Matilde scattò in piedi con uno stacco netto delle ginocchia e si allontanò per cercare un punto dove sotterrare l’apparecchio.                                                 

Apparecchio di Ricerca dei Travolti in VAlanga

   Camminava da qualche minuto, scendendo di quota, quando pensò che il cumulo di neve che aveva davanti potesse andare bene. C’era un’apertura, alla base, e non ci sarebbe stato bisogno di scavare. Si chinò: il foro era ampio quel tanto che sarebbe bastato per passarci gattoni. Matilde si slacciò il cinturino e ci infilò l’apparecchio. Lo spinse con le dita.  Scivolava, scivolava bene. Sentì il piccolo tonfo che fece toccando il fondo e allora si accucciò per controllare dove fosse finito l’apparecchio. Non lo vedeva. Allungò il braccio per cercare di toccarlo, ma il fondo doveva essere più distante.  Quindi si sporse con tutto il busto infilando la testa nel buco nella neve. Non si trattava di una cavità naturale, né di una tana. Si presentava invece come una realizzazione squadrata, tecnica, un tunnel allargato ai lati, al riparo dal vento e al sicuro da valanghe spontanee. Due, magari anche tre adulti avrebbero potuto passarci una notte, accendere cerini per illuminare o scaldare un po’ l’aria. Bere un tè caldo. Dormire, forse. Parlare, anche. Qualcosa di più simile alle capanne di sedie e coperte dei bambini che a un igloo. Era una truna. Nella sua esistenza era implicitamente scritta la sua fine, sarebbe ritornata a far parte degli strati del suolo: disciolta da un forte vento di scirocco, oppure crivellata dalla pioggia battente, o seppellita da una nuova nevicata.

La bambina si è allontanata. Da chiudifila, alle spalle dei suoi genitori, ha preso la via del bosco seguendo un uomo con una giacca rossa; come papà. Avanza d’istinto, attraversa la neve tra gli alberi ed esce nel banco di una bufera bianca.

 Sono molli gli sci sotto le gambe inerti. Che quella figura che si allontana sia suo padre è una certezza che perderà lungo la via. L’aria ha stinto, manca il cielo. Insegue il colore rosso della giacca finché l’accelerazione dei corpi non diventa l’unica legge del momento presente. Le curve a ricamo dell’uomo accrescono il distacco e il solco sofferto che le cancella è l’unico vero errore che rallenta la bambina. Anche lo sguardo, dopo le gambe, si stanca. Prima di rendersi conto di quanto fermarsi sia inutile, la bambina esita sul margine della discesa: orientarsi a dritta verso valle è un passaggio obbligato. Riparte. Spazzaneve. Si tiene al centro del pendio, curva bianca dopo curva bianca. Il tempo si è gonfiato è il freddo le è arrivato addosso. Per quel che le è dato sapere, potrebbe fare buio da un momento all’altro. Quando intravede il casello della seggiovia, imprime il suo sforzo estremo agli sci e compie un cambio di direzione.

La fila di persone proviene dalla parte opposta. La bambina taglia i ranghi della fila. Quando guadagna il turno, piega leggermente le gambe, si prende la sua pacca, si lascia scivolare sullo schienale basso della seggiovia, e si assicura. È come in giostra. I piloni rallentano la fune per farsi ascoltare. Se qualcuno cade alla partenza, si fermano anche tutti gli altri davanti, a mezz’aria. Restare fermo tra le rotelle di un pilone è una condizione speciale, una vittoria. I ragazzi che le viaggiano accanto hanno accenti tutti diversi tra loro. La bambina li ascolta, stranieri; ride, ma non sa indovinare la loro provenienza come loro vorrebbero. 

All’arrivo nessuno ad attenderla. I genitori non sono davanti, non sono neanche rimasti indietro. Sono altrove.

Quando la sbarra si alza, la bambina si volta per salutare con la mano i ragazzi. Anche loro la salutano, perplessi. Poi abbassa di nuovo la sbarra.

La seggiovia riparte. La bambina non si volta più.

A valle le siedono accanto una donna e un bambino. La donna si toglie il guanto per allungare un pezzo di cioccolata al bambino – il pezzo di cioccolata le passa davanti, lei è nel mezzo del sedile – poi la donna si porta il telefono all’orecchio.  Tra il chiacchiericcio indistinto della mamma e i suoni della masticazione in corso, del figlio, la bambina sente la bocca riempirsi di saliva.

A ogni giro di giostra sale la nebbia, tra due macchie di abeti; piccoli granelli di neve le si posano sul naso, sulle labbra, sulle ciocche appiccicate di capelli freddi. La folla in fila si dimezza. Di tanto in tanto la bambina cambia di posto: verso l’esterno, per non stare sempre in centro. I colori della notte in agguato passano dalla terra al cielo. Il cielo, ora sereno, sbiadisce, e la neve prende i toni del blu scuro. Il vento continua a soffiare e a placarsi, a momenti. La cerniera della giacca le arriva poco più su del mento. L’aria le ha spaccato il labbro superiore: una piccola linea scura, un sottile rivolo di sangue le ha macchiato gli incisivi. La luce esterna al gabbiotto s’è accesa a produrre un alone giallastro. Si sono accese anche le luci lungo le piste. Si aprono le porte delle rimesse dove dormono i gatti delle nevi. La giostra rallenta. Il custode l’aiuta a scendere. Vuole sapere il suo nome. La bambina si lecca i denti. Prende fiato e travolge ogni cosa.

 «Federico, mi chiamo Federico».

Dà al custode il numero di telefono di sua madre, a memoria.

La donna risponde perplessa.

«Non ho figli maschi».

Il custode ci pensa.

«Signora, ma ha perso qualcuno?».

La bambina non sente la mamma pronunciare il suo nome, ma lo legge negli occhi del custode. Non aspetta che la telefonata venga chiusa; si allontana, ma non come fa quando le scappa la pipì. Si allontana e basta, provando gusto nella fatica di muoversi. Non avrebbe mai abbandonato gli sci: le sono troppo preziosi e troppo onerosi, tutte e due le cose insieme.

Arriva da sé a desiderare di arrendersi.

Si addormenta al chiuso, sotto la neve, dopo aver tirato dentro gli sci.

La volta è diafana e sottile, lascia trasparire una luce troppo forte per provenire esclusivamente dalla luna e dalle stelle. Prima di addormentarsi, mette un’ultima volta la testa fuori: il faro irradia un alone di luce sulle piste. Poi più niente fino al mattino, quando la ritrovano.

«Certo che val di Luce è un bel nome», disse Matilde una volta in macchina, diretti verso casa. «Suona un po’ esotico, però.»

  Giulia era d’accordo con lei:

 «Quasi trentino» aggiunse.     

   Francesco raccontò loro che originariamente aveva un altro battesimo, valle delle Pozze. Più adatto al luogo. Poi diede poi a Matilde la risposta che cercava.

«Per quel che ne so» disse, «qui un faro non c’è mai stato.»

https://raccontareilpaesaggio.com/raccontare-il-paesaggio-sonoro-da-maggio-2021/

2 pensieri riguardo “Dissolvenza al bianco (o della Val di Luce)

  1. Comunque la Val di Luce é in Toscana per tutta la sua ampiezza: da “Casa Coppi”, lungo la strada del Duca, fino al passo di Annibale. Solo per la precisione.😀

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  2. Giusto. Probabilmente mi è mancata la sensazione di aver svalicato in Toscana.
    Ma non importa. Ne ho tenuto conto nella correzione successiva. Grazie 🙂

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