Storia di uno sguardo a puntate, 4/ Roma-Amelia e ritorno, passando per Orte (seconda parte)

Storia di uno sguardo a puntate, 4/ Roma-Amelia e ritorno, passando per Orte (seconda parte)

di Fiammetta Palpati

[In questa rubrica, dedicata a Raccontare il paesaggio, cercherò di raccogliere delle brevi narrazioni – descrizioni, osservazioni, aneddoti – sui luoghi che ospiteranno il laboratorio. Per familiarizzare. Comincerò dalle terre di confine, o limitrofe, entro le quali – o dalle quali – Amelia e i colli Amerini si definiscono per differenza, propagazione, emanazione. fp].

[Leggi la prima parte].
[Leggi la puntata successiva].

Dunque, dicevo al principio, che entrammo in Umbria dalla via Amerina.
Di quel paesaggio collinare posso enumerare gli elementi, ma non disporli in modo significativo: boschetti, vigne, oliveti, campi, pascoli, querce, stivali, pruni, fossi, conserve di frutta, conigliere, ponticelli, assi, fienili, stalle, fagiani, trattori, casali in pietra, scale, benzina agricola, galline e galli a passo d’uomo.

Posso aggiungere che la sensazione che ebbi, di tutto ciò, fu che la terra non mi avrebbe soverchiata. Che anzi, mi avrebbe cullata. Che non vuol dire niente, non descrive niente se non un sentimento di un luogo, più o meno come quando si dice della collina che è dolce. La dolcezza, io credo, sta nella percezione della misura e della continuità. Altezze e profondità – cime e valli – crinali e fossi – declivi e acclivi – poggi e fondi – sono linee curve continue, angoli aperti, scorci che anticipano i successivi e che in essi si continuano. C’è uno stupore, ma non uno sgomento. Lo stupore è sollecitato e smorzato dalle anticipazioni, lo sgomento contenuto dal confine. Infine c’è la congruenza. L’appartenenza degli elementi allo stesso ordine di mondo. Alla parola ordine, o al suo concetto, io attribuivo – in quel momento, credo – la convinzione di una possibile, occasionale, temporanea, convergenza – uso questo ultimo concetto per evitare quello di armonia, nel quale non credo – tra la storia della terra e quella degli uomini che la abitano. Mi spingo oltre: credo che di quel paesaggio io cogliessi – a livello intuitivo – la possibilità di conciliare il mio sentire il tempo in modo lineare – c’è un principio dei tempi, e c’è una fine dei tempi – e in modo circolare – poiché questo procedere, questa linea, non è una linea retta, ma curva. Circolare, appunto.
Questo è il mio piccolo delirio sulla passeggiata in macchina, col sedile reclinato, verso Amelia. Quanto ai fatti, essi andarono più o meno così.

Lungo la provinciale c’era una casa cantoniera con il cartello «Vendesi». Era color rosso casa cantoniera e aveva le mostre bianche intorno al portoncino e alle finestre. C’era una vigna domestica – un paio di filari lasciati un po’ andare – qualche olivo, e l’orto con degli enormi cavoli dalle foglie bluastre. Guardammo da fuori. Il proprietario lo rintracciammo attraverso il numero di telefono sul cartello «Vendesi». Lo raggiungemmo nel luogo dove stava pranzando – ci aveva detto il nome dell’Agriturismo e poi aveva aggiunto «da amici». Ci inoltrammo in uno stradello sterrato, che scendeva lentamente attraverso campi e macchie di bosco, guidando a passo d’uomo per evitare le buche, i sassi, i rovi. La strada portava al fondo di una valletta silenziosissima. C’erano due casali – uno di fronte all’altro – di quelli poderali, con la scala esterna che porta al primo piano abitato, la loggetta davanti alla porta d’ingresso, e al piano terreno le stalle. I casali erano simmetrici e le loggette si fronteggiavano. Tra i due casali c’era una staccionata e un campo rivoltato di zolle scurissime. Un cavallo era legato alla staccionata e se ne rimase immobile anche quando scendemmo dalla macchina respirando a fondo e ci avvicinammo in cerca di una presenza umana. Mio figlio si tolse il ciuccio e disse:
«Un cavallo da guardia».

Il ristorante doveva essere stato una grossa stalla: era uno stanzone pieno di tavoli apparecchiati ma vuoti, e in fondo un grande camino con della carne sulla graticola che sfrigolava. Il proprietario della casa cantoniera era seduto vicino al fuoco. Disse che vendeva la casa perché da quando era rimasto vedovo non ce la faceva a mandare avanti tutto. Che gli dispiaceva molto. Mangiava molto pane insieme all’arrosto. E mi fece tenerezza come me la fanno le persone che mangiano pane, anche per togliere di bocca l’amaro. Disse che insieme alla casa c’era pure un pezzettino di bosco dal quale si faceva legna sufficiente per scaldarsi. Poi ci presentò il padrone del ristorante, il quale venne a prendere le nostre ordinazioni. Lui si occupava degli arrosti, mentre sua moglie pensava al resto della cucina. Il figlio – spiegò – faceva la pizza il sabato sera. Tutti e tre badavano all’azienda: animali, campi, eccetera. Avevano costruito pure dei casottini lungo il torrente, che affittavano solo d’estate ai turisti e che ci volle mostrare nonostante fossero freddi e umidi – casomai volessimo tornare. Disse pure che il sabato sera, per la pizza e il ballo, il locale si riempiva.

Non comprammo la casa cantoniera, nonostante ci fosse piaciuta molto. Ci parve, in quel momento, troppo isolata per crescere due bambini. In compenso la moglie del proprietario del ristorante – una donna molto minuta – ci consigliò di proseguire per Amelia. Io le chiesi perché. Aveva gli occhi piccoli e molto scuri, brillanti. Rispose che era bella. Ma bella come, volli sapere io.
«Dentro la città, lungo le terrazze, ci sono gli orti.»

Quando ci trasferimmo a vivere ad Amelia, o forse un po’ dopo, la casa cantoniera era già stata venduta. Non era già più rosso casa cantoniera, non aveva le mostre bianche intorno alle porte e alle finestre. Ora è gialla; è circondata da una ringhiera antracite e chiusa da un cancello elettrico, col porfido in terra. Non so come siano riusciti anche a spiombare i muri, che ricordo strombati agli angoli; forse non li hanno spiombati, forse è solo l’impressione.
Nonostante questo piccolo dispiacere siamo tornati più volte a mangiare dal «cavallo da guardia».
Un giorno a prendere le ordinazioni venne il figlio del proprietario – eravamo i soliti unici clienti del sabato a pranzo. Subito dalla cucina uscì anche la moglie che si asciugò le mani col grembiule e si sedette al nostro tavolo. Ci chiese cosa volessimo mangiare e disse che aveva fatto gli gnocchi. Poi raccontò che il marito non c’era perché era morto. Disse che una mattina presto aveva aperto la porta del bagno e l’aveva trovato in piedi, morto mentre faceva un bisogno. Mentre pisciava, disse. Col coso ancora in mano.

La valle su cui si estende la proprietà dove c’era il cavallo da guardia è attraversata dal torrente Rio Grande, che scende dal fianco della collina di Amelia. Poco a nord di Orte il Rio Grande confluisce nel Tevere. Lungo la strada della casa cantoniera e del cavallo da guardia, più o meno vicino a una curva, prima che si cominci a salire, c’è una paletta storta. Il segnale turistico dice Porto di Seripola.
È rimasto poco del punto in cui le merci di Amelia – olio e fichi soprattutto – si imbarcavano a Orte per Roma, attraverso il Tevere. Qualcosa di più è rimasto del ponte che i Romani costruirono affinché la via Amerina – l’unica strada che da Roma arrivava in Umbria – guadasse il Tevere. A un certo punto preferirono aprire un’altra strada, la Flaminia, più est, e costruirono un altro ponte, questa volta sul Nera, nella gola sotto la rocca di Narni. Anche il ponte di Augusto a Narni non esiste più come ponte, ma solo come rovina. Ma poiché durante i secoli del gran tour italiano molti artisti diretti a Roma attraverso la Flaminia si fermarono a dipingerlo, esso è molto più conosciuto di quello di Orte.

Se Orte è un confine, un passaggio – e in questo suo essere passaggio io riconosco il persistere di un’identità, sebbene attraverso un cedimento di identità – Amelia è un punto di arrivo. Una posizione dalla quale guardare dopo essersi lasciati dietro la terra vulcanica e il comportamento del Tevere, il colore del tufo e dei fiumi che si mescolano, l’età della terra e la nascita dei laghi, i vapori, caldi, umidi, chimici, cioè tutto quello che ci si lascia alle spalle salendo sui Colli amerini e che poi, voltandosi, si vedrà solo come sagoma e vuoto e orizzonte. Una posizione dalla quale cingersi di paesaggio.

* * *

3 pensieri riguardo “Storia di uno sguardo a puntate, 4/ Roma-Amelia e ritorno, passando per Orte (seconda parte)

  1. Di questo scritto mi piace l’andamento lento come lo sguardo di chi si dispone ad osservare un paesaggio e lentamente si gira a cogliere dettagli, colori, forme. Lo stesso sguardo che l’osservatore attento dedica ad un quadro fiammingo.
    Essere negli occhi di chi guarda.
    Bell’inizio, direi …

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