Storia di uno sguardo a puntate, 3 / Roma-Amelia, passando per Orte (prima parte)

Storia di uno sguardo a puntate, 3 / Roma-Amelia, passando per Orte (prima parte)

di Fiammetta Palpati

[In questa rubrica, dedicata a Raccontare il paesaggio, cercherò di raccogliere delle brevi narrazioni – descrizioni, osservazioni, aneddoti – sui luoghi che ospiteranno il laboratorio. Per familiarizzare. Comincerò dalle terre di confine, o limitrofe, entro le quali – o dalle quali – Amelia e i colli Amerini si definiscono per differenza, propagazione, emanazione. La fotografia qui sopra è di Marcello Paolocci. fp].

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Arrivai ad Amelia la prima volta a metà pomeriggio di un sabato, dopo un pranzo che si era protratto in chiacchiere in un ristorante di campagna in fondo a una piccola valle – non dico agriturismo perché di turistico c’era davvero poco. Mio marito e io venivamo dalla delusione di aver visitato una casa in vendita a Orte: un rudere di blocchetti di tufo su un terreno ripidissimo, in alto a sinistra i piloni del viadotto della superstrada, in basso a destra la ferrovia. Nell’andarcene, alla svelta, imboccammo casualmente la via Amerina. In macchina, naturalmente.

Era stata l’ennesima delle ricognizioni nelle zone in cui avremmo potuto andare ad abitare da quando avevamo deciso di lasciare Roma, e alle quali dedicavamo i fine settimana. La scelta del giorno era dettata dalla pagina degli annunci immobiliari. Generalmente visitavamo le case al mattino – le tipologie più disparate: terreni, casali, cielo-terra nei centri storici – e poi rimanevamo a gironzolare nei dintorni. Da neo-genitori – mediamente agiati, mediamente velleitari – cercavamo i palloni bianco sporco dei centri sportivi, le palette dello scuolabus sparse nelle campagne o quelle con gli orari dei pullman extraurbani, le scuole e scuolette di musica, le ludoteche. Generalmente tutto si esauriva in una scampagnata e un pranzo in trattoria.
Nel giro di qualche mese, comunque, perlustrammo e poi scartammo la maggior parte delle zone, soprattutto quelle residenziali: volevamo evitare di insediarci in uno dei numerosi neo-nati quartieri satellite della enorme fascia urbanizzata in cui si è trasformata la storica campagna romana. Nelle nostre convinzioni non si poteva lasciare Roma se non a patto di abitare un luogo, di trovare un’identità alternativa. Allargammo dunque il nostro raggio d’esplorazione.
Finché arrivò il turno di Orte.
Era il limite nord, la porta per l’Umbria – l’Umbria che solo a nominarla ti si allarga il petto.

Se penso a Orte – adesso, non allora, quando cercavo soprattutto un posto per uscire e riposare da Roma – penso a un nodo. E lo è, naturalmente. Anzi uno snodo, stradale e ferroviario, dice Wikipedia. Un piccolo centro, significativo soprattutto (ma dovrei dire esclusivamente) perché ci transitano, si fermano e cambiano binario i treni delle linee Roma-Firenze, Roma-Viterbo, Roma-Ancona e, naturalmente, Roma-Perugia. Lo stesso avviene per le strade: più o meno a metà dell’Italia si incrociano l’autostrada del Sole e la statale E45: cioè l’asse approssimativamente verticale, Milano-Napoli, e quello altrettanto approssimativamente orizzontale Ravenna-Civitavecchia. La costa adriatica alla costa tirrenica. So che ci sono diverse località, non distanti da questo crocevia – Narni, Rieti – che si disputano l’essere il centro geografico d’Italia; l’ombelico della penisola si definiscono. Ecco, io questo titolo lo lascerei a Orte, se non altro in risarcimento per tutti gli attraversamenti, i solchi ferrati, le tonnellate di asfalto, di catrame e di merci delle quali si sobbarca. Glielo lascerei se non fosse per la sua antipatia. Per la tirannide che esercita nei confronti dei paesi vicini. Per le varie, e nuove forme di dazio che impone con il suo essere porta, confine. (l’ultima, per dire, è il costosissimo parcheggio della stazione).

Oggi, a distanza di quasi quindici anni dalla visita al rudere sul terreno scosceso al di sotto della superstrada e al di sopra della stazione, la mia soggettiva immagine di Orte è proprio quella di un nodo: le rampe di ingresso e di uscita dall’autostrada che si sovrappongono a quelle della statale, la rotonda di smistamento del traffico, il carosello dei Tir, i piloni di cemento del viadotto. E direi che è bianco. Sì, bianco, sebbene di bianco non ci sia che la vasta area biancastra dell’Interporto, geometricamente divisa e numerata in gate – il cemento stampato dei magazzini e quello liscio delle piattaforme di carico e scarico –, le gigantesche bombole bianche, lucide, per l’ossigeno, l’idrogeno, l’acetilene prodotti dalla Sapio, e gli altrettanto enormi sbuffi delle lavorazioni che creano una nuvola gassosa – bianca appunto – intorno al casello autostradale.

Vapori, gas. Una visione piuttosto suggestiva; soprattutto di notte, senza fermare la macchina.

Suggestiva anche perché – in modo che immagino incidentale – la presenza di questi vapori ne richiama altri, più discreti, più naturali – caldi o tiepidi – effetti di un vulcanesimo secondario – che percorrono il sottosuolo e forano la superficie in sorgenti termali, acque minerali, piscine che esalano sentore di zolfo. Caldare, dice il segnale con l’icona della fabbrica. Piscinale. Terme.
Questo è il limite occidentale dell’Etruria, o della Tuscia se preferite, di cui Orte – Orte storico, paese – è l’ultimo bastione tufaceo: una rupe bruno-grigiastra che si solleva dal piano come spinta da sotto; le pareti glabre, rastremate, fessurate verticalmente a cui s’aggrappano, sparuti, i cespugli; intorno alla base un anello di grotte scavate nel tufo e chiuse da saracinesche o assi di legno incrociati – preistoriche rimesse per gli orti suburbani che crescono su un lembo di terra tra il fiume e i binari, tra la via dell’acqua e la via di ferro. L’abitato ricopre la sommità spianata della rupe e ne fa parte: case e casupole – il solito asserragliamento medievale – fatti della medesima pietra che li sostiene, o in essa scavati. O da essa emergenti, come i muri dei palazzi storici – quelli con le finestre in duplice o triplice ordine che affacciano sul vuoto del dirupo: essi formano un’unica parete verticale, omogenea, con la roccia porosa e del medesimo colore bruno-grigiastro che ai raggi trasversali del sole riflette il giallo.
Uno scenario di erosione. Anzi, di effusione prima e di erosione poi, ma anche la narrazione di un rapporto plastico con la terra – tanto sopra quanto sotto – come fu quello etrusco.

Torno al vapore, poiché ce n’è un altro – quello freddo dei fiumi – che si manifesta in nebbia, in umidità.
I fiumi, una volta a valle, sono perlopiù discreti, silenziosi. Rimangono nascosti. Si intuiscono da un doppio filare di alberi che li costeggia, da un canneto nelle anse paludose, e in quel caso ci si può meravigliare di quanto sia ondivago il loro andamento. Quello del Tevere, in questo tratto mediano, lo è.
Io non ho mai visto, davvero, la confluenza del Nera nel Tevere. Che pure avviene qui, dove sono ora, dove penso di essere, a un passo dal casello autostradale di Orte. Dico anzi che non ho mai visto, davvero, il Tevere fiume. Per me – nata e cresciuta a Roma, con i muraglioni più che centenari – il Tevere è una presenza data; un’entità che non nasce: è. Torbida da sempre. So – leggo – che dopo aver ricevuto poco a valle di Orte le acque del Nera – la cui portata è abbondante e, soprattutto, regolare – più di ogni altro fiume d’Italia –, il Tevere è ingrossato. Ma cosa avviene quando le acque si mescolano, se esse cambino di colore, di temperatura, non l’ho ancora osservato. Dalla rupe di Orte dovrebbe vedersi bene questo atto del confluire e del ricevere, così come l’esibizione, la spavalderia, con cui lo Scalo, a valle, offre sé stesso alle percorrenze, alle produzioni, agli attraversamenti. Devono distinguersi, verso sud, gli ultimi tributi del Nera all’Umbria già invecchiati e imbelliti in archeologie industriali: la centrale elettrica, il polo chimico, l’Alcantara. Soprattutto, deve cogliersi con un solo sguardo quel largo corridoio che il Tevere ha spianato, e che porta a Roma. Percorrerlo a velocità sostenuta – poche decine di minuti di autostrada con leggere variazioni altimetriche e qualche galleria – dà la sensazione di un rettilineo. Un’affermazione discutibile per un tratto che è pieno di anse, di ripiegamenti – ripensamenti del corso.

Dove – quando – ho cominciato a vedere quel corridoio come uno spartiacque geologico? Non lo so. Ma c’è questo paesaggio che io mi sono costruita attraverso centinaia, migliaia, di movimenti e sguardi che mi fa dire che il Tevere divide almeno due età, due attività della terra. Da un lato, fino al mare Tirreno, e fino a Roma e oltre, una larga distesa effusiva, eruttiva: coni, bocche, crateri collassati che si sono riempiti di acque dolci, hanno formato laghi perfettamente circolari con le rive di sabbia nera; la porosità del magma raffreddato rapidamente: una spugna vetrificata, nei cui alveoli si trattiene l’acqua, cresce il muschio, sono ospitati scheletri e ceneri, e che mi fa dire: tumido, tosco, funebre tufo. Di qua dal Tevere – dal luogo dal quale scrivo – l’Umbria, la Sabina. Le compressioni e le distensioni lente, profonde, e la pietra chiara. La calcite, la marna, l’arenaria.
I colli amerini – Amelia – sono un balcone.

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